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Opinioni e analisi

Liberare Öcalan per liberare tutti

Il 15 febbraio scorso è caduto il ventiquattresimo anniversario della cattura di Abdullah Öcalan, teorico del Confederalismo democratico e fondatore del Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK), considerato da Stati Uniti, Turchia e Unione europea un’organizzazione terroristica.

L’operazione di intelligence condotta dai servizi turchi (MIT) e dalla CIA che portò alla cattura di Öcalan a Nairobi (Kenya), dove si era rifugiato dopo un lungo pellegrinaggio in Europa, è passato alla storia come “il grande complotto”. In pratica, un tradimento di diversi Stati, anche rivali tra loro, nei confronti di un pensatore dalla vasta popolarità e delle loro stesse Costituzioni. Le dinamiche che hanno portato alla cattura di Öcalan, infatti, sono considerate una violazione del diritto internazionale.

A causa di tensioni tra la Turchia e la Siria, il teorico turco fu costretto ad abbandonare quest’ultima nel 1998, rifugiandosi prima in Russia e poi, una volta invitato a lasciare il Paese da Mosca, a Roma. In Italia, Öcalan si vide negato lo status di rifugiato politico dalla magistratura, che si espresse in suo favore troppo tardi, sotto la pressione politica di Palazzo Chigi.

Il governo D’Alema, sotto la minaccia di boicottaggio delle aziende italiane ricevuta da Ankara, decise per l’allontanamento del rivoluzionario kurdo, violando gli articoli 10 e 26 della propria Costituzione, che regolano il diritto d’asilo e vietano l’estradizione passiva in relazione a reati politici.

Inoltre, la Germania guidata dal socialdemocratico Gerhard Schröeder, per paura dei possibili disordini tra le minoranze curde e turche presenti sul territorio nazionale, si rifiutò di far pervenire alla magistratura italiana il mandato di cattura emesso contro Öcalan dai colleghi tedeschi. Questo avrebbe reso più rapida una decisione favorevole della magistratura nostrana: la Germania si rese pertanto complice dell’Italia e dei Paesi europei che, dopo aver usato per decenni il movimento di liberazione kurdo in Medio Oriente, violarono i principi sui quali sostengono di basarsi, un po’ a salvaguardia delle relazioni con la Turchia, un po’ a salvaguardia di loro stessi.

Öcalan fu quindi costretto a un’Odissea che si concluse in Kenya, dove fu arrestato per poi essere trasferito in Turchia. Nel suo Paese natale, Öcalan fu processato e condannato a morte per impiccagione. Tuttavia, dopo l’abolizione della pena di morte nel Paese anatolico, la pena fu commutata in carcere a vita da scontare in regime di isolamento nella struttura penitenziaria di Imrali, su un’isola nel Mar di Marmara, appositamente costruita per ospitare il celebre prigioniero. Una sentenza che non ha nulla da invidiare alla crudeltà della pena capitale.

Dal 1999 sono passati ventiquattro anni e la riflessione su Öcalan e sul rapporto tra Diritto e prigionieri politici rimane più attuale che mai.

Öcalan non è solo il leader della popolazione kurda, divisa in quattro Paesi. É anche un rivoluzionario che, tramite una profonda riflessione svolta durante la sua ventennale detenzione, ha elaborato una dottrina che rimane, almeno in termini cronologici, l’ultima via al socialismo, cooptando ecologismo, femminismo e democrazia centralizzata. Per svariate ragioni, però, Öcalan resta una figura ignorata dagli Stati di diritto e incompresa dagli ambienti intellettuali occidentali, fattore che ne rende la posizione, e di conseguenza i diritti, più deboli.

Da un lato, il pensiero di Öcalan appare troppo estremista anche per i partiti radicali nostrani, forse perché, come sostiene l’antropologo anarchico David Graeber, «gli scritti di Öcalan mettono a disagio molti intellettuali e politici perché rappresentano una forma di pensiero inestricabile dall’azione». Dall’altro, rimane il prodotto di un pensatore non-bianco fortemente anti-statalista e, di conseguenza, considerato non idoneo alle istituzionali aule universitarie.

Le caratteristiche del pensiero di Öcalan, insieme al suo status di figura chiave nella lotta per l’autodeterminazione del popolo kurdo, lo rendono agli occhi dello Stato turco e dei suoi partner come una figura estremamente pericolosa. Da sottoporre a una pressoché totale limitazione delle libertà. Come dimostrato da una ricerca sul campo effettuata nel mese di gennaio da una delegazione internazionale, Öcalan subisce una continua violazione dei propri diritti da carcerato. Da un confronto con gli avvocati e le avvocatesse dell’ufficio legale Asrin, che si occupa della difesa di Öcalan, è emerso che lo Stato turco viola continuamente il proprio codice penale.

I carcerati delle prigioni turche, anche quelli in isolamento, hanno diritto a incontrare i propri familiari e i propri avvocati una volta ogni due settimane. Nel caso di Öcalan e dei suoi compagni a Imrali (dopo alcune timide pressioni della Corte Penale dell’UE, nel 2009, furono aggiunti altri tre carcerati) tale diritto non viene garantito.

Gli stessi avvocati e avvocatesse che lo rappresentano sono riusciti a incontrare il proprio assistito solo cinque volte tra il 2011 e il 2019, mentre le chiamate telefoniche all’esterno del carcere, anche queste un diritto garantito dal codice penale turco, sono state due. L’ultima, nel 2021, interrotta dopo che Öcalan, apparentemente ancora lucido, ha sbottato alla cornetta dicendo: «Fate qualcosa. Ho dei diritti e voglio parlare con i miei avvocati».

Dal 2011 al 2016, anno del tentato golpe in Turchia, i divieti di incontrare Öcalan sono stati giustificati con scuse assurde, legate al maltempo o al malfunzionamento del servizio di traghetti che collega il continente all’isola carcere. Tra il 2016 e il 2018, invece, gli ostacoli subiti dagli avvocati e dalle avvocatesse nello svolgere la propria professione sono stati giustificati dallo stato di emergenza.

Tuttavia, come sottolineato dalla stessa squadra legale, le misure eccezionali applicate nel biennio a Öcalan sono poi state votate in Parlamento e diventate legge, costituendo un precedente e una norma di fatto nella gestione dei diritti dei prigionieri incarcerati con accuse legate al terrorismo. In Turchia, qualsiasi tipo di azione che possa mettere a repentaglio l’integrità dello Stato e delle sue istituzioni: di base, ogni attività d’opposizione. 

In tutti questi anni, le istituzioni dell’UE non hanno fatto altro che emettere sentenze, definendo lo stato di prigionia di Öcalan una violazione dei diritti umani e una continua tortura. Ma tali risoluzioni non sono vincolanti, pertanto gli Stati dell’Unione possono evitare di prendere posizione per non rovinare i rapporti con il “prezioso” partner. Una situazione che ricorda l’ipocrisia espressa dall’Italia, e non solo, in casi come l’omicidio di Giulio Regeni e l’arresto di Patrick Zaky, che hanno visto una presa di posizione solamente teorica nei confronti dell’Egitto autoritario di al-Sisi.

Viene da sorridere a pensare che, quando si tratta di contestare i crimini commessi da “Stati canaglia”, come la Russia in seguito all’invasione dell’Ucraina e l’Iran in seguito alla violenta repressione delle recenti proteste, l’UE si presenta, giustamente, come un blocco unito e coeso. Fa sorridere meno, invece, il fatto che un prigioniero politico rimanga in uno stato di detenzione che viola i più basilari diritti umani da più di vent’anni all’interno di una struttura penitenziaria disumana e illegale che si trova sul territorio di un Paese partner dell’Unione europea, istituzione che si vanta di basarsi sul rispetto dei Diritti fondamentali dell’Uomo. 

Se Bruxelles sostiene in maniera diretta o meno i rami militari presenti in Siria del PKK, le Unità di difesa dei popoli (YPG) e le Unità di difesa delle donne (YPJ), lo fa quando queste servono a contrastare lo Stato islamico di Iraq e Siria. Scampato il pericolo, l’Ue ha ripreso a ignorare le aggressioni militari turche ai danni delle stesse formazioni militari. Facendosi trovare pronta a consegnare gli oppositori politici kurdi presenti nelle comunità diasporiche europee ad Ankara, in cambio dell’adesione alla NATO dei Paesi nordici, come nel trattato di Madrid del giugno 2022.

Ciò che dovrebbe spingere maggiormente la società civile a fare pressione ai governi europei sono i diversi “casi Öcalan” nei diversi Stati. Basti pensare a Julian Paul Assange, colpevole di aver svolto egregiamente il proprio mestiere di giornalista; a Yvan Colonna, indipendentista corso assassinato dallo Stato francese che lo ha messo in cella con un jihadista che aveva già minacciato di morte il rivoluzionario; al rapper spagnolo Pablo Hasél, accusato di terrorismo per aver insultato in uno dei suoi brani la corona spagnola; o all’anarchico italiano Alfredo CospitoLa violazione dei diritti dei detenuti politici è oggi tipica di ogni Stato, indipendentemente dall’ordinamento dello stesso e, di conseguenza, un problema globale e non locale.

Da Öcalan a Cospito, passando per i noti prigionieri già menzionati e a migliaia di altri meno “celebri”, i regimi di carcere duro, che siano l’italiano 41bis o il turco Tipologia F, altro non sono che una violazione dei diritti umani. Gli sforzi della comunità democratica internazionale devono essere indirizzati all’abolizione di tale tipo di detenzione e alla liberazione di chi lo subisce.

L’importanza di Öcalan deriva proprio dall’essere l’apripista alla moderna segregazione dei prigionieri politici, pratica mai davvero scomparsa neanche con la fine dei regimi autoritari del XX secolo. Per influenza sulle opposizioni politiche globali e per le condizioni cui è sottoposto, Öcalan ricorda ai più Antonio Gramsci, intellettuale nostrano morto nella stessa prigionia a cui fu condannato come pensatore dissidente.

Per questo motivo, se l’incarcerazione di Öcalan ha rappresentato un pericoloso precedente, la sua liberazione, raggiungibile solo con uno sforzo sociale e politico comune, rappresenterebbe il prezioso precedente per l’abolizione dei regimi di carcere duro come strumento di repressione del dissenso politico.

 

di Enrico La Forgia

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