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Opinioni e analisi

Turchia: il destino di Erdoğan

C’è un amore che potrebbe svanire, dal Corno d’Oro all’Anatolia profonda, quello fra l’uomo-Stato e padre della Patria ormai più musulmana che kemalista e la maggioranza del popolo turco. Così sostengono detrattori e oppositori di Recep Tayyip Erdoğan in base alle attuali proiezioni del consenso per il partito di maggioranza Adalet ve Kalkınma Partisi (AKP) scese al 32%. O almeno questo sognerebbero accadesse alle consultazioni del 2023.

L’anno che è di per sé un simbolo – il centenario della moderna Turchia – dovrà sancire se l’ex ragazzo del popoloso quartiere di Kasımpașa – divenuto primo cittadino istanbuliota poi leader nazionale, Primo Ministro, Presidente e dal 2017, grazie alla nuova Costituzione votata anche dai Lupi grigi del Milliyetçi Hareket Partisi (MHP) diventati strettissimi alleati, iper-presidente d’una nazione china alla sua volontà – resta il politico turco più longevo nel rapporto col potere.

Quel presidenzialismo, ribadito dal referendum popolare, è solo la conferma d’una personalizzazione che ha radici profonde nella storia recente e passata del Paese nato dalla disgregazione dell’Impero Ottomano. Perché il paternalismo e il senso di protezione offerti dal sultano alla umma islamica e alle comunità religiose del millet, restano nel substrato culturale e psicologico transitato nella nazione di Atatürk e nelle leadership che dal secondo dopoguerra si sono succedute, sotto l’impronta kemalista o neo-ottomana, comunque rivolte al capitalismo e al liberismo pur di sfuggire al liberalismo o al comunismo.

Una Turchia divisa fra laicismo e islamismo che più d’uno storico considera poco propensa alla democrazia borghese, affascinata invece dal ruolo del grande capo.

Competitori deboli

Con simili premesse Erdoğan, anche ora che sfiora i settant’anni, ha doti da vendere davanti a figure sbiadite o dal carisma tutto da definire come «il vecchio e il nuovo» presenti nel Çumhuriyet Halk Partisi (CHP), raggruppamento storico, fondato da Mustafa Kemal in persona. Chi ne raccoglie il nome, Kemal Kılıçdaroğlu, conserva la guida da oltre un decennio, ma resta in sella più per l’appoggio della forte comunità alevita cui appartiene che per capacità soggettive.

Col cinquantaduenne Ekrem İmamoğlu, uno dei sindaci della riscossa anti-regime delle amministrative 2019 insediato nella metropoli sul Bosforo, l’idea d’un possibile cambiamento al vertice del Paese potrebbe prendere corpo. Lui mostra un differente approccio alla politica, pur nell’osservanza del Corano e nella pratica islamica cui non si sottrae. È mite e unificante, l’opposto del fiammeggiante presidente, però deve convincere una nazione abituata a pensare in grande, sebbene quest’indirizzo abbia prodotto problemi e contraddizioni diventate da un triennio cocenti.

La sua corsa è comunque in salita: il panorama internazionale in cui la Turchia è inserita costituisce un contesto molto più oneroso rispetto alla conduzione d’una metropoli, pur immensa come Istanbul. E per un’offesa pronunciata a seguito d’un battibecco polemico dopo la sua elezione, rischia d’essere escluso da una condanna della magistratura.

Non mostrano sprint presidenziale neppure i due transfughi del partito di governo: gli esperti ex ministro delle Finanze Babacan e l’ex responsabile degli Esteri Davutoğlu, allontanatisi dal patriarca e creatori di due formazioni d’opposizione, rispettivamente Demokrasi ve Atılım Partisi (Deva) e Gelecek Partisi (GP) date a percentuali minime del 3-4%.

Altri gruppi politici che ostacolano il perpetuare dell’erdoğanismo sono: İyi Parti (İyi), creatura dell’ex lupa grigia Meral Akşener fuoriuscita nel 2017 dal movimento nazionalista, diventato sempre più dominio personale e maschilista del leader Bahçeli. Demokrat Parti (DP) attualmente guidato dall’affarista Gültekin Uysal e il secondo partito islamista, Saadet Parti (SP), da un quinquennio diretto dall’ingegner Karamollaoğlu, un’altra formazione che non supera il 2%.

Nodi internazionali

Certo, se nell’urna delle politiche l’elettore trovasse questo sestetto unito perlomeno in una coalizione con un programma minimo, il progetto potrebbe diventare un ostacolo per l’ennesima corsa di potere dell’AKP. Ma l’alleanza coi nazionalisti ha ridato fiato a Erdoğan non solo nella revisione della Costituzione. Ha creato un fronte ultraconservatore che s’alimenta del desiderio egemonico turco: dal Mediterraneo, negli scenari bellici siriano e libico, passando per i tavoli di mediazione d’ogni crisi mondiale, e si cementa nel disegno securitario interno contro il pericolo del «terrorismo» kurdo.

Una proposta su cui insiste Bahçeli è la messa al bando del Halkların Demokratik Partisi (HDP), i cui due co-presidenti Selahattin Demirtaş e Figen Yüksekdağ, più altri tredici deputati sono in galera dal novembre 2016. C’è chi vorrebbe lasciarceli, come il seppellito vivo nell’isola-prigione di İmralı: Abdullah Öcalan. Per tutti l’accusa di assecondare il Partîya Karkerén Kurdîstan (PKK), già fuorilegge poiché considerato un’organizzazione terroristica, posizione peraltro sostenuta da Stati Uniti e Unione Europea.

L’accusa di fiancheggiamento è rigettata dai membri dell’HDP, ma la solidarietà di cui godono in alcuni Stati occidentali, compresa quella di ripararvi come rifugiati, è ultimamente messa in bilico dalle mosse atlantiste di Erdoğan che baratta il suo assenso all’ingresso nella NATO delle neutrali Svezia e Finlandia in cambio della loro indisponibilità ad aprire le porte di casa alla dissidenza kurda, armata e non.

Eccoli, dunque, alcuni nodi internazionali che incombono sulle elezioni turche del prossimo giugno. Fra parentesi, impedire al voto kurdo di posizionarsi sull’Hdp significa azzerare un elettorato che, nel 2015, contava il 13% dei consensi. Non è detto che questo voto finirebbe nell’astensione, che in Turchia è sempre molto, molto bassa.

Sicurezza

Complotti esterni e sicurezza diventano il fulcro del programma dell’attuale governo che, dalle reiterate sette emergenze contro i golpisti fethullahçi (i seguaci di Fethullah Gülen) durate un triennio, con epurazioni e persecuzioni di decine di migliaia fra militari, poliziotti, magistrati, docenti, giornalisti, finanche intellettuali e artisti, s’allarga ai pericoli di altri scenari di terrore, come quello recente, seminato sulla storica Istiklal Caddesi, che ha fatto sei vittime e oltre ottanta feriti.

Il Paese aveva già dato tanto sangue, fra il 2015 e il 2019, con stragi di matrice islamica (ISIS) e l’armatismo dissidente kurdo (Falchi della libertà) visto che col PKK, tornato combattente, lo scontro è attorcigliato fra i suoi agguati ai militari turchi e le retate di quest’ultimi nelle province orientali non prive di uccisioni di civili.

Per l’area di quel che è stato il Rojava e la sua autodeterminazione in punta di fucile, oltre alle punizioni dal cielo sulle «Unità di Protezione del Popolo» il piano già applicato da anni di creare una fascia di sicurezza larga 15-17 miglia fra la Turchia meridionale e la Siria settentrionale, lungo l’asse Afrin-Kobanê-Cizre, è diventato una realtà pattugliata da Ankara coi carri armati.

È lì che il governo vorrebbe trasferire le famiglie siriane trasformatesi in un problema. Il rapporto inizialmente benevolo con strati più poveri della popolazione turca s’è deteriorato, i siriani “rubano” lavoro ai locali, ovviamente lavoro in nero, ma tant’è. La propaganda che cavalca un’insofferenza trasformata in malcontento è una variabile che già ha prodotto fuga di consensi all’APK. Da qui l’idea della migrazione forzata in quell’unica zona dei siriani, finora accolti un po’ ovunque. Se il primo decennio di potere erdoğaniano ha rappresentato una giostra di fiducia e consensi popolari, secondo gli anti-Erdoğan l’aria sul Bosforo è mutata.

Il «sultano» incantatore

Carovita e un’inflazione al 100% erodono il benessere vissuto da inizio millennio dal ceto medio e pure dagli strati più umili. Tutti beneficiavano del boom scomparso da almeno tre anni, non per la pandemia e per le speculazioni attorno alle guerre, ma per una flessione d’investimenti esteri e per le personali teorie finanziarie con cui il presidente si scontra con esperti mondiali e coi suoi ministri dell’economia (ne ha sostituiti tre in un anno).

A suo dire, alte aliquote d’interesse causano l’aumento inflazionistico, invece tassi bassi stimolano la crescita, incrementano l’esportazione e creano lavoro. Però gli investimenti stranieri continuano a calare, di recente Wolkswagen ha rinunciato a un grosso impianto previsto a Izmir.

Erdoğan accusa attacchi alla lira frutto di volute turbolenze straniere sui mercati. E, se i dati del terzo trimestre di quest’anno mostrano una crescita pari al 7%, gli analisti ammoniscono: l’aumento potrebbe risultare fittizio e avere breve durata per l’elevata inflazione e il crollo valutario.

Eppure il super-Io del presidente riesce tuttora ad ammaliare. La modernità nella tradizione proposta al popolo è basata su fatti e le fantasmagoriche infrastrutture finora realizzate, dentro e attorno l’area di Istanbul, sono la vetrina della Turchia che raggiunge il centenario e rilancia. La creazione attesa per il 2028 è il secondo canale parallelo al Bosforo.

Andando a ritroso, nel marzo di quest’anno, l’ultimo gioiello è stato il ponte Çanakkale 1915 che attraversa i Dardanelli e riduce a cinque minuti d’auto il passaggio dall’Europa (Gallipoli) all’Asia (Lapseki) e viceversa, per un pedaggio di 12 euro. Coi suoi duemila e ventitré metri di luce fra le due torri è diventato il ponte sospeso più lungo al mondo, superando quello giapponese nello stretto di Akashi.

A fine 2018 è stata avviata la prima area del mega aeroporto Istanbul del consorzio IGA, anch’esso un’opera da record: 76 milioni di metri quadrati di superficie che lo fa primo al mondo per un traffico previsto di 150 milioni di passeggeri all’anno. Il 26 agosto 2016, quaranta giorni dopo il tentativo di golpe, era andata a buon fine l’inaugurazione del terzo ponte sul Bosforo dedicato a Sultan Selim.

A chi interessano i diritti civili?

Così nel 2013 i tumulti giovanili del Gezi Park non rallentarono i lavori del collegamento metropolitano fra la zona europea e quella asiatica tramite il mega tunnel sotto il Bosforo percorso da Marmaray, 13 km di cui 1,5 sommersi a 62 metri di profondità. Un’idea che gli annali storici narrano sfiorasse i desideri già del sultano Abdoul Medjid nel 1860, e che il moderno “sultano” ha sostenuto con tutte le sue forze, comprendendone non solo l’avveniristica efficacia, ma l’impatto emotivo sulla gente.

Né va dimenticato, in una fase di bisogno energetico mondiale, il gasdotto TurkStream già in funzione dal 2020. Né il primo dei quattro reattori nucleari della Centrale Akkuyu, nella provincia meridionale di Mersin, che entrerà in funzione a fine 2023. Frutto d’un ulteriore partenariato con Putin (ne è investita la società russa Rosatom), anche perché la UE reitera il suo ostracismo ad Ankara.

Sul banco della personale sfida presidenzialista e su quello d’un sistema che si richiama a sé stesso Erdoğan fa pesare uno spasmodico attivismo internazionale, diventato conciliante con ex avversari regionali, dal sionismo di Tel Aviv, al turbocapitalismo visionario e cinico di Bin Salman. Ultimamente i rapporti risultano distesi addirittura con la Grecia, con cui il leader turco non battaglia più attorno alle Zone Economiche Esclusive coinvolte nei giacimenti di gas del Mediterraneo orientale.

Gli avversari dell’urna non hanno una lista di obiettivi raggiunti e neppure di progetti altrettanto ambiziosi da proporre agli elettori. Possono reclamare libertà e diritti civili, tallone d’Achille del partito del presidente e dei suoi alleati. Ma quanti cittadini prestano orecchio a questi valori?

di Enrico Campofreda

Pubblicato sul mensile Confronti, gennaio 2023.

 

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