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Opinioni e analisi

Valutazione dell’attuale situazione politica: In Kurdistan come nel mondo – Per una società autodeterminata

Da più di 30 anni nel mondo infuria una Terza guerra mondiale. Il suo centro non sono né le ex repubbliche sovietiche né i Paesi dell’Estremo Oriente. Da tre decenni a questa parte, i popoli del Medio Oriente subiscono in modo più acuto le massicce distorsioni causate dalla crisi ideologico-organizzativa della modernità capitalista.

Alcuni eventi portano a qualcosa di più di una nuova fase politica. Il crollo dell’Unione Sovietica, l’occupazione statunitense dell’Iraq o l’invasione russa dell’Ucraina, iniziata alla fine di febbraio, sono eventi di tale portata da inaugurare epoche storiche di lungo periodo o accelerarne le dinamiche. È quindi attualmente molto importante analizzare gli sviluppi politici quotidiani in modo da prendere coscienza delle loro dimensioni storiche e delle loro conseguenze strategiche. Su questa base, noi membri, sostenitori o simpatizzanti delle forze democratiche del nostro Paese possiamo riconoscere correttamente le risposte che queste forze sociali devono trovare alle attuali condizioni politiche, al fine di proteggere gli interessi delle donne, dei giovani, dei lavoratori e dei popoli del mondo.

Da più di 30 anni nel mondo infuria una Terza guerra mondiale. Il suo centro non sono né le ex repubbliche sovietiche né i Paesi dell’Estremo Oriente. Da tre decenni a questa parte, i popoli del Medio Oriente subiscono in modo più acuto le massicce distorsioni causate dalla crisi ideologico-organizzativa della modernità capitalista. Ciò include la disintegrazione degli Stati, lo sfollamento di milioni di persone, la distruzione dell’ambiente naturale e il genocidio del popolo curdo. A livello globale, dal crollo dell’Unione Sovietica, gli attacchi ai valori umani più basilari di libertà, democrazia, uguaglianza e pace si sono moltiplicati.

Dall’inizio della guerra in Ucraina, i rappresentanti politici, mediatici, economici e scientifici della modernità capitalista utilizzano tutti questi termini – guerra mondiale, genocidio, difesa della libertà – in modo molto attivo. Ogni giorno si parla del pericolo di una «Terza guerra mondiale in avvicinamento», del genocidio contro la popolazione ucraina e della difesa della libertà contro il regime di Putin. Per quanto sia importante per la comprensione della nostra epoca storica usare questi termini centrali, nel prosieguo di questa analisi risulterà evidente che le forze democratiche hanno un grande interesse a usarli in modo più analitico, autodeterminato e meno propagandistico – e quindi a proteggersi dalle pericolose conseguenze delle campagne di distrazione e di distorsione dei portavoce statal-capitalisti come la BBC, la CNN o il Tagesschau.

Gli attori centrali della Terza guerra mondiale e le loro strategie

Nella precedente analisi Valutazione della situazione politica attuale: La Terza guerra mondiale e il suo impatto sul Kurdistan, sono state fatte importanti osservazioni sulle caratteristiche fondamentali della Terza guerra mondiale e sull’ordine mondiale multipolare che sta diventando sempre più evidente. Sullo sfondo di queste osservazioni, possiamo soffermarci sulle attuali politiche degli attori centrali della modernità capitalista: Regno Unito, Stati Uniti, Russia, Germania e Cina, anche se per ragioni di spazio ne discuteremo qui in dettaglio solo tre. Sono queste potenze statali-capitaliste che oggi si contendono le posizioni preminenti nell’ordine mondiale multipolare, utilizzando un’ampia varietà di mezzi – tutti deliberatamente basati sulla distruzione di interi Paesi, come l’Ucraina o l’Iraq, sulla distruzione e lo sfollamento di intere società, come in Kurdistan o in Siria, e sullo sperpero di risorse sociali nella guerra.

Forse la più silenziosa, ma senza dubbio la più efficace di queste potenze è la Gran Bretagna. Per secoli, lo Stato britannico ha perseguito la pretesa di diventare potenza mondiale, ed è riuscito ad affermarla nella pratica fino al 1945. Nel corso di questo percorso, è stato in grado di raccogliere ampie relazioni, esperienze e conoscenze in tutte le regioni del mondo. Dopo la Brexit, si considera di nuovo in una posizione ideale per attuare la sua strategia di «Gran Bretagna globale in un’epoca competitiva» in modo aggressivo e in altri vari modi. La strategia che serve a questo scopo è la stessa da secoli e attualmente si può osservare molto bene nell’Europa continentale: «divide et impera».

Nel suo libro The Grand Chessboard: American Primacy and Its Geostrategic Imperatives, pubblicato nel 1997, il geostratega di fama mondiale ed ex consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti Zbigniew Brzezinski mostra in modo impressionante quanto dividere l’Eurasia sia centrale nel perseguimento di una pretesa di potere globale. Un’Eurasia unita, cioè un’Europa che coesiste pacificamente con la Russia e l’Asia, con tutti gli attori che cooperano economicamente tra di loro e che sono culturalmente intrecciati, non sarebbe semplicemente controllabile dall’esterno. Perché avrebbe abbastanza terra, risorse naturali e persone per rappresentare i propri interessi in modo autodeterminato. Brzezinski nomina anche le regioni dell’Eurasia particolarmente adatte a creare divisioni nel vasto continente: Georgia, Corea… e Ucraina.

Secondo quanto ammesso dagli stessi ministri britannici, dal 2014 il Paese ha addestrato oltre 20.000 soldati ucraini sui moderni sistemi da guerra della NATO e ha fornito migliaia di missili anticarro e antiaerei. Recentemente sono stati aggiunti anche moderni lanciarazzi multipli. Questo ampio sostegno ha spinto l’attuale presidente ucraino a ringraziare pubblicamente i suoi partner britannici. Il primo ministro Johnson ha descritto la guerra in corso dalla fine di febbraio come «l’ora migliore dell’Ucraina», esprimendo chiaramente la soddisfazione dello Stato britannico per la distruzione dell’Ucraina e per la spaccatura sempre più profonda tra Europa e Russia. La BBC, deliberatamente impiegata come strumento di politica estera dal Regno Unito, dal 24 febbraio offre a chiunque sia interessato una raffica di propaganda 24 ore su 24 che parla di eroi di guerra ucraini, di una popolazione civile che si schiera incondizionatamente a favore del proprio Stato e di Putin, che si suppone sia mutato in modo del tutto inaspettato in un criminale di guerra.

La politica britannica di massicce forniture di armi, di strette consultazioni politico-militari, di propaganda bellica dei media e di corteggiamento diplomatico del governo ucraino è stata innegabilmente molto efficace finora e sta permettendo all’Ucraina di condurre una guerra a lungo termine contro la Russia. Ma non è giusto. Chiunque conoscesse la situazione dell’Ucraina prima del 24 febbraio 2022, sa bene quanto poco la società ucraina stimi lo Stato, la burocrazia e i politici del proprio Paese. Dal 2014, l’esercito ucraino comprende un numero considerevole di soldati apertamente fascisti, il che vale anche per la burocrazia statale e i suoi rappresentanti nel governo. Non a caso è consuetudine per loro onorare i collaboratori ucraini del fascismo tedesco. Solo di recente, undici partiti di opposizione del Paese sono stati semplicemente messi al bando.

Lo Stato britannico è uno dei maggiori sostenitori di questi pericolosi sviluppi, in quanto il regime di Zelensky si offre volentieri di sacrificare la popolazione e la ricchezza dell’Ucraina in cambio della politica britannica del «divide et impera», che rende impossibile la coesistenza pacifica delle società europee. Lo Stato britannico continuerà a dividere e governare anche in altre parti del mondo. Con l’aiuto del patto AUCUS in Estremo Oriente, insieme a Erdoğan e al clan Barzanî in Medio Oriente, a fianco del regime azero nel Caucaso, e sostenendo governi talvolta apertamente fascisti come quelli di Polonia e Ucraina in Europa.

Non è sorprendente che la Russia abbia invaso l’Ucraina, né dobbiamo interrogarci molto sui motivi che hanno spinto lo Stato russo a prendere questa decisione epocale. Chiunque abbia seguito con attenzione, ad esempio, il discorso di Putin del 2007 alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco, o il documentario di circa quattro ore di numerose interviste che Oliver Stone ha condotto con Putin nel 2017, ha potuto vedere molto chiaramente ciò che lo Stato russo cerca nella guerra in Ucraina: un posto di rilievo nell’ordine mondiale multipolare. Nel suo discorso del 2007, Putin si è lamentato del fatto che la Russia abbia aperto contenta le sue porte al capitale internazionale e abbia rivendicato per sé una piccola parte delle opportunità di profitto in altre parti del mondo, ma che l’Occidente semplicemente non ne abbia mai abbastanza. Al più tardi dal 2007, il più alto rappresentante dello Stato russo ha ripetuto praticamente a ogni occasione che la Russia rivendica un posto rispettabile tra i centri di potere statali multipolari di questo mondo. Di conseguenza, la preoccupazione della Russia oggi in Ucraina non è né il genocidio della popolazione ucraina né la promozione della libertà, della democrazia e dell’uguaglianza.

La possibilità che lo Stato russo possa far valere le sue richieste contro l’alleanza di esercito ucraino, gruppi fascisti e mercenari internazionali, addestrati ed equipaggiati dalla NATO, è alquanto discutibile. Il problema centrale della Russia è che non ha nulla di fondamentalmente nuovo da offrire in un momento di crisi ideologico-organizzativa della modernità capitalista. Sulla base di uno Stato altamente centralizzato, di un nazionalismo pronunciato e della sua forza militare, il Paese può essere in grado di mantenere il suo posto tra i poli di potere del mondo, ma non può contribuire praticamente in nulla per risolvere gli immensi problemi dell’umanità.

La Russia ha già pagato un prezzo enorme per la guerra in Ucraina. Anche se dovesse raggiungere il suo obiettivo di rendere l’Ucraina politicamente neutrale, militarmente debole ed economicamente dipendente da Mosca e l’Occidente, l’enorme pressione politica ed economica dei Paesi della NATO e dei loro alleati, unita alle pesanti perdite militari in Ucraina, costringerà inevitabilmente la Russia a rivedere la sua politica. Non è improbabile che lo Stato russo cerchi di vendicarsi in altre parti del mondo per la sua umiliazione in Ucraina. Di conseguenza, nel prossimo futuro dovremo prestare molta attenzione al ruolo di Mosca nel contesto delle tensioni nei Balcani, nel Caucaso e in Medio Oriente.

In Germania, le contraddizioni interne sono emerse così apertamente nel corso della guerra in Ucraina che si può parlare di una sorta di crisi di Stato. Il conflitto storico tra il capitale tedesco di orientamento eurasiatico, rappresentato politicamente in particolare da pezzi della SPD ma anche da circoli pro-Merkel nella CDU, e le fazioni del capitale tedesco di radicamento transatlantico, è letteralmente esploso con il nuovo governo di SPD, Verdi e FDP. Non solo sono stati bloccati progetti energetici strategici come Nord Stream 2 e le relazioni economiche con la Russia sono state massicciamente ridotte, ma lo Stato tedesco sta anche partecipando alla distruzione della pace nella parte occidentale dell’Eurasia con forniture di armi e un ampio sostegno diplomatico-mediatico.

Questo conflitto è stato inizialmente politico quando, all’inizio del nuovo governo, è scoppiata una disputa pubblica tra la Cancelleria controllata dalla SPD e il Ministero degli Esteri del Partito Verde su chi avrebbe determinato la politica estera del futuro governo. Soprattutto a causa di quadri politici verdi come Baerbock, Hofreiter, Nouripour e Habeck, l’attuale leadership politica tedesca può essere descritta come un governo di guerra. In fascisti come Zelensky ed Erdoğan, in autocrati come la casa regnante del Qatar o in fantocci della NATO come la leadership di Taiwan, la leadership dei Verdi pensa di aver trovato partner promettenti per la Germania.

I rappresentanti dello Stato che sostengono gli interessi del capitale tedesco orientato all’Eurasia, ad esempio Gerhard Schröder, Sigmar Gabriel, Walter Steinmeier o Angela Merkel, sono messi alla gogna all’unisono dai media e dalla politica. Le contraddizioni interne della Germania sono così profonde che le fazioni dello Stato e del capitale in competizione tra loro non esitano più a umiliare i quadri statali – attivi ed ex – e a dichiararli praticamente fuorilegge. Questo dimostra quanto sia grave la crisi politica dello Stato tedesco oggi.

Non è invece una novità la reazione aggressiva e impanicata dei media tedeschi, dell’élite scientifica e dei decisori politici contro qualsiasi opposizione al coinvolgimento della Germania in una guerra sul suolo europeo. Le idee degli artisti e degli intellettuali tedeschi di orientamento democratico che hanno scritto una lettera aperta critica sono state dichiarate ingenue e pericolose, e le proteste marginali del movimento tedesco contro la guerra nel contesto delle manifestazioni di Pasqua sono state diffamate con una campagna mediatica durata diversi giorni. Il cancelliere tedesco Olaf Scholz ha addirittura definito le richieste dei manifestanti «ciniche» e «fuori dal tempo». Questi atteggiamenti intolleranti, militaristi e timorosi rivelano il vero volto della «nuova responsabilità tedesca» dell’oggi.

Attualmente, la fazione transatlantica della NATO tra le élite politiche, militari ed economiche tedesche ha indubbiamente preso il timone dello Stato e continuerà a insistere aggressivamente sull’affermazione dei propri interessi nel prossimo futuro. Sono ben consapevoli di quanto sia rischiosa la distruzione della pace eurasiatica e di quante proteste sociali si scateneranno in Germania contro le conseguenze immediate di questa politica – ad esempio l’aumento dei prezzi, il rafforzamento delle forze fasciste, lo smantellamento della democrazia e la guerra. Rappresentato dal governo federale de facto, guidato dai Verdi, l’apparato statale tedesco cercherà quindi sempre più in futuro di delegittimare o mettere a tacere il dissenso politico, giustificando la pressione economica sulla popolazione del Paese con le presunte inevitabili conseguenze delle guerre. Attuando una politica estera militarista e antidemocratica, favorendo i riflessi di paura del popolo tedesco.

Per quanto diverse possano essere le posizioni di partenza dei vari attori statali della modernità capitalista, tutti si avvalgono di alcuni strumenti per affermarsi nella Terza guerra mondiale (in corso da più di 30 anni), per diventare un polo di potere indipendente nel mondo multipolare. I rappresentanti del governo britannico, in particolare, ne parlano molto apertamente e giustificano l’uso della forza militare, delle sanzioni economiche e delle campagne mediatiche sostenendo di difendere la libertà e la democrazia contro le autocrazie del mondo, che in ultima analisi significa soprattutto Russia e Cina. Un gioco mediatico e politico con le paure della gente in mezzo a una pandemia può essere osservato praticamente ogni giorno dall’inizio del coronavirus nel 2020. Ieri era coronavirus, oggi è il vaiolo delle scimmie e domani potrebbe essere un’altra malattia che consente l’isolamento sociale regolato dalla legge e la restrizione dei diritti democratici, mentre il clima sociale di paura dei propri simili non lascia apparentemente altra scelta che gettarsi tra le braccia presumibilmente protettive dello Stato paternalista e rifugiarsi nel mondo digitale di Netflix, Meta e Co.

I mezzi militari, economici, mediatici e biologici fanno quindi parte del repertorio completo con cui gli attori della modernità capitalista si combattono oggi nel contesto della Terza guerra mondiale, e allo stesso tempo espongono le società, i popoli e gli individui di questo mondo ad attacchi senza sosta. Questi attori statali sono ben consapevoli della natura della Terza guerra mondiale, che differisce in modo significativo dalle prime due guerre mondiali, e si sono adattati alla sua natura prolungata e alla sua complessità. Quanto più lo faranno anche le forze democratiche di questo mondo, tanto prima saranno in grado di porre fine a questa guerra, del tutto insensata dal punto di vista dell’umanità, e di prepararsi a lavorare sulla vera agenda dei popoli del mondo, delle donne, dei giovani e dei lavoratori.

Il genocidio in Medio Oriente

A seguito dell’aggravarsi della crisi della modernità capitalista, anche le tensioni in Medio Oriente stanno prendendo piede. Sia la guerra in Ucraina che le guerre in Medio Oriente sono il risultato della competizione tra gli attori statali per il loro posto nell’ordine mondiale multipolare e della crisi ideologico-organizzativa della modernità capitalista. Di conseguenza, sono strettamente correlate. Dall’inizio della guerra in Ucraina alla fine di febbraio, i numerosi conflitti in Medio Oriente si sono chiaramente intensificati. Pertanto, gli sviluppi attuali sono in qualche modo simili a quelli del 2014, quando, pochi mesi dopo l’occupazione russa della Crimea, il Medio Oriente fu gettato nel caos più totale dall’offensiva dello Stato Islamico (IS).

Lo Stato turco sta attualmente approfittando dei conflitti tra le potenze internazionali e della situazione di tensione della NATO per imporre sistematicamente l’obiettivo più importante della sua politica neo-ottomana a breve e medio termine: l’annessione della Siria settentrionale e del Kurdistan meridionale. Ciò consentirebbe alla Turchia di (ri)stabilire i confini dello Stato-nazione, che la borghesia nazionale turca aveva fissato come obiettivo cento anni fa, ma che non era riuscita a raggiungere a causa delle pressioni di Francia e Gran Bretagna. La creazione di una zona di occupazione profonda 30 chilometri e lunga circa 1400 chilometri lungo il confine meridionale consentirebbe allo Stato turco di destabilizzare la Siria e l’Iraq in modo così massiccio che l’annessione delle parti rimanenti, in conformità con il Misak-ı Millî (Patto Nazionale, insieme di sei decisioni prese dall’ultimo Parlamento ottomano tra il 1919 e il 1920), non dovrebbe più porre grandi difficoltà. Questo è il piano.

Tuttavia, poiché l’attuazione concreta sta attualmente fallendo nelle regioni curde meridionali di Zap, Avaşîn e Metîna a causa della resistenza delle Unità di Difesa del Popolo e delle Donne (HPG e YJA-Star), il regime turco dell’AKP-MHP sta cercando obiettivi presumibilmente più facili nel Nord della Siria. Se la Turchia riuscisse davvero a occupare aree come Şehba e Minbic, Aleppo sarebbe a un tiro di schioppo. In questo modo si stabilirebbe con successo l’estremità occidentale del confine meridionale dopo il Misak-ı Millî. L’approvazione pubblicamente espressa dal Partito Popolare Repubblicano (CHP) all’opposizione dimostra che questa è una politica dello Stato turco e non di un singolo governo o di un dittatore come Erdoğan.

Dal punto di vista della NATO, in particolare degli Stati Uniti, del Regno Unito e della Germania, l’obiettivo del Misak-ı Millî appare certamente degno di essere sostenuto, poiché allontanerebbe in modo decisivo l’influenza iraniana nella regione. Allo stesso tempo, Bruxelles, Washington, Londra e Berlino sembrano impazienti di usare la Turchia per trasportare il gas e il petrolio siriano e iracheno in Europa, facilitando così l’isolamento economico della Russia. Il recente riavvicinamento tra Israele e Turchia mostra chiaramente che anche Gerusalemme è solidale con le ambizioni turche. È importante non dimenticare che lo Stato turco persegue una politica fortemente determinata dall’esterno, soprattutto a causa della sua dipendenza economica e militare dalla NATO. La borghesia turca può sognare un nuovo Impero Ottomano e, di fronte a sempre nuove operazioni di occupazione, può convincersi di poterlo effettivamente realizzare. Ma sia le sue radici ideologiche nelle capitali dell’Europa occidentale, sia la sua attuale condizione economico-militare, la fanno apparire più come un cane sciolto, tenuto al guinzaglio dalla NATO, e anche da Russia e Cina. A parte le motivazioni di politica estera, il regime dell’AKP-MHP è guidato a livello interno dalla paura di perdere il potere alle prossime elezioni. La guerra e il nazionalismo sono quindi strumenti graditi per distrarre la popolazione dai veri problemi del Paese e per costringere i partiti di opposizione a sostenere acriticamente il governo in tempo di guerra.

La distruzione causata dalla politica della Turchia in Medio Oriente è innegabilmente enorme. Il Kurdistan e il popolo curdo in particolare sono sottoposti a una politica di genocidio di proporzioni inimmaginabili. Circa 650 villaggi sono attualmente minacciati di sfollamento nel solo Kurdistan meridionale. 150 villaggi della regione sono stati completamente spopolati dal 2015. Questi numeri non sorprendono se si considera che gli aerei da guerra e i droni turchi hanno bombardato la regione più di 2.000 volte dal 14 aprile 2022 e che circa 700 attacchi con armi chimiche sono stati effettuati dall’esercito turco. Anche nelle principali città del Kurdistan meridionale lo Stato turco, con l’aiuto di killer su commissione assoldati dai servizi segreti del MIT, agisce sempre più spesso contro i curdi che si oppongono apertamente alla politica di occupazione della Turchia. L’omicidio di Zeki Çelebi a Silêmanî a maggio, e di un altro patriota curdo del Nord pochi giorni prima nella città di Dohuk, lo dimostrano chiaramente. Nel Nord e nell’Est della Siria, è ormai consuetudine subire attacchi di droni e artiglieria volti a cacciare i civili dai loro villaggi e città.

Nel 2022, quindi, la popolazione curda rischia di essere completamente privata dei propri mezzi di sussistenza nel Kurdistan settentrionale, meridionale e occidentale. Nel quadro del progetto Misak-ı Millî, le condizioni intollerabili di Efrîn – l’espulsione della popolazione curda e l’insediamento di centinaia di migliaia di islamici arabi e turcomanni e delle loro famiglie – saranno estese a tre quarti del Kurdistan. Il fatto che questo creerebbe di fatto uno «Stato islamico» in Kurdistan sotto il protettorato di Ankara non è di buon auspicio nemmeno per la sicurezza europea.

Oltre alla Turchia, è l’Iran che, in quanto potenza regionale, influenza in modo decisivo gli sviluppi nella regione. I negoziati del Paese a Vienna con le principali potenze della modernità capitalista sembrano ora essersi seriamente arenati, nonostante le ripetute assicurazioni in senso contrario di tutte le parti. La Russia non è attualmente particolarmente interessata al successo di un accordo, in quanto questo libererebbe le forze della NATO impegnate contro l’Iran in Medio Oriente per provocazioni contro la Russia e la Cina. Anche Israele si oppone con forza a un accordo con Teheran. Dall’inizio dell’anno l’Iran ha compiuto mosse politiche e militari molto decisive, in particolare nel Kurdistan meridionale e in Iraq. Con l’aiuto della Corte Costituzionale irachena, che controlla, l’Iran sta attaccando la vendita di petrolio e gas del Kurdistan meridionale a Israele e all’Europa, controllata dal Partito Democratico del Kurdistan (KDP). Una recente legge approvata dal Parlamento iracheno che criminalizza qualsiasi relazione con Israele è un altro attacco aperto contro il KDP e i suoi amici di Gerusalemme. Dal punto di vista militare, i ripetuti attacchi missilistici a Hewlêr (Erbil) e alle compagnie petrolifere curde del Sud negli ultimi mesi hanno chiarito che l’Iran non è più disposto a tollerare la portata delle attività delle agenzie di intelligence, dei militari, dei governi e delle compagnie israeliane e occidentali alle porte dell’Iran.

Mentre l’Iran stesso è in preda a gravi disordini e proteste interne, in particolare legate alla mancanza di democrazia e alle conseguenze economiche della crisi della modernità capitalista, il regime continua a fare affidamento su forze per procura che ha addestrato, equipaggiato e coordinato all’estero, in Yemen, Libano, Iraq, Siria e Afghanistan. In questo modo, spera di destabilizzare il Medio Oriente in linea con i propri interessi, rendendo il più difficile possibile per i numerosi nemici regionali e internazionali del Paese rivolgere la propria attenzione all’Iran stesso. Dal punto di vista politico, sociale ed economico, però, Teheran non ha praticamente nulla da offrire che possa contribuire alla soluzione dei problemi in Medio Oriente.

La lotta globale per la libertà

Né la NATO in Ucraina, né gli Stati Uniti a Taiwan, né l’UE in Afghanistan stanno difendendo valori umani fondamentali come la libertà, l’uguaglianza e la democrazia. Osservando le società e i popoli in diverse parti del mondo, è chiaro che sono i movimenti, le organizzazioni e gli individui non statali e anticapitalisti a ribellarsi sempre più alla crisi della modernità capitalista. Nei loro metodi – proteste civili, forze armate di autodifesa, lavoro parlamentare, auto-organizzazione sociale, lotte legali, organizzazione sindacale, ecc. – possono differire, ma nel loro obiettivo centrale – una vita libera – sono una cosa sola.

Il Kurdistan è e rimane un’importante fonte di ispirazione per tutte le società e i popoli del mondo che lottano per la libertà. Basandosi sulle proprie forze, il Kurdistan continua a essere il luogo della resistenza militare, politica, culturale, economica e sociale contro il fascismo e il genocidio turco. Data la straordinaria importanza della rivoluzione in Kurdistan, la difesa delle conquiste ottenute in quel paese costituisce un servizio per tutta l’umanità. Così, quando milioni di persone nel Kurdistan del Nord in Turchia combattono politicamente contro l’isolamento di Abdullah Öcalan, stanno combattendo per il diritto di milioni di persone in tutto il mondo di avere accesso al loro leader strategico e politico. Quando lottano per la difesa della lingua curda e della coesione sociale contro una politica statale di droga, prostituzione e stupro, stanno anche difendendo una delle culture più antiche del mondo e proteggendo il mosaico culturale dell’umanità contro i grigi sforzi di omogeneizzazione della modernità capitalista. Se a milioni di persone in Rojava viene data la possibilità di organizzarsi democraticamente e di prendere in mano la difesa della propria terra, nonostante gli attacchi dell’occupazione turca, la tirannia islamista e la guerra dell’acqua, allora questo dimostra a tutte le società del mondo quale enorme potere sprigioni l’amministrazione autonoma della società. Se le forze di guerriglia dell’HPG e dell’YJA-Star nel Kurdistan meridionale resistono con successo alla NATO e alla Turchia per mesi e anni, ciò dimostra a tutti i popoli del mondo che essi stessi possono difendersi in modo efficace ed etico dagli attacchi dello Stato. Nel prossimo futuro sarà importante che il popolo curdo e la società del Kurdistan, da un lato, socializzino ancora di più la loro autodifesa e la portino anche nelle città della Turchia e, dall’altro, siano ancora più creativi e determinati nel costruire strutture di amministrazione autonoma democratica nel Nord e nell’Est della Siria, a Mexmûr, a Şengal, a Qendil e nel Kurdistan del Nord.

In Sri Lanka, le ultime settimane hanno mostrato in modo drastico a cosa porti il genocidio fisico nel lungo periodo. Dalla repressione militare del movimento tamil nel 2009, possibile anche grazie al sostegno di lunga data dei militari e dei politici britannici, un clan familiare governa lo Sri Lanka in modo dittatoriale. La «soluzione tamil» è stata la distruzione fisica dei leader della società tamil, l’instaurazione di un regime collaborazionista dipendente dalle forze della modernità capitalista e lo sfruttamento spietato delle risorse naturali dello Sri Lanka. Dal 2009, nessuno dei problemi sociali del Paese è stato risolto, anche solo in modo rudimentale. Di conseguenza, nel paese sono scoppiate proteste diffuse sulla scia della crisi economica globale causata dalle contraddizioni al centro del capitalismo. Lo Stato dello Sri Lanka è ormai insolvente ed economicamente così segnato dalla corruzione e dallo sfruttamento coloniale da non poter più garantire nemmeno l’approvvigionamento alimentare della popolazione.

Sullo sfondo di una storia moderna di resistenza lunga decenni, i leader della società tamil si trovano oggi ad affrontare la sfida di organizzare un’efficace resistenza sociale che vada oltre le proteste spontanee e si basi su un’ampia alleanza di tutti i segmenti democratici della società. Non sarà facile, vista la brutalità del regime dello Sri Lanka e dei suoi sostenitori internazionali, ma ha buone possibilità di successo grazie alla natura culturale della resistenza tamil e alla memoria fresca della società in termini di organizzazione e lotta. Sarà fondamentale – sulla base di un’autocritica onesta e completa – adattare il paradigma, la strategia e le tattiche della resistenza alle condizioni odierne dello Sri Lanka. La popolazione degli ultimi mesi mostra chiaramente che il popolo è pronto per un nuovo inizio.

In Sudamerica, popoli e culture resistono con determinazione e pazienza da decenni alle conseguenze immediate dell’imperialismo statunitense e allo stile di vita della modernità capitalista che viene loro imposto. In Bolivia, Venezuela, Cile, Brasile e Colombia, sono le ampie alleanze, soprattutto di studenti, popoli indigeni e donne, a resistere al fascismo, alla distruzione ecologica e allo sfruttamento coloniale. La forza di questa resistenza sociale si riflette, tra l’altro, nei recenti risultati elettorali in Bolivia, Cile e Colombia, mentre ci si può aspettare qualcosa di simile per le prossime elezioni in Brasile.

Questo è sia un successo che un pericolo. Infatti, le forze della modernità capitalista, insieme alle burocrazie statali sudamericane che hanno collaborato con loro per decenni, sono estremamente esperte nell’assorbimento parlamentare della resistenza sociale. I presidenti del Messico o del Cile, definiti «socialdemocratici» o «di sinistra», dimostrano chiaramente quali grandi compromessi vengano strappati ai movimenti di resistenza sociale non appena questi portano i loro rappresentanti nelle cariche statali.

Il Cile, in particolare, è stato utilizzato come laboratorio politico dalla modernità capitalista a partire dagli anni Settanta. Dopo il colpo di Stato della NATO che portò Pinochet al potere nel 1973, nel Paese si installò praticamente per la prima volta il modello neoliberista, che a partire dagli anni Ottanta avrebbe abbracciato il mondo intero. Le forze della modernità capitalista trovarono così una risposta globale alla loro crisi ideologico-culturale scoppiata alla fine degli anni Sessanta. Oggi, di conseguenza, le forze democratico-rivoluzionarie del Sudamerica dovranno difendersi con grande attenzione dal rischio di essere distolte dai loro stretti legami con la società e dalle loro coerenti richieste di democrazia, libertà e uguaglianza attraverso elezioni, referendum costituzionali e altre offerte di pacificazione dello Stato. Se ci riusciranno, l’ampiezza delle loro alleanze, il radicamento culturale della loro lotta e la loro esperienza organizzativa di lotta daranno loro le migliori possibilità di liberarsi dal giogo della modernità capitalista.

Di fronte alle conseguenze sociali di vasta portata della pandemia di coronavirus e al ritorno di una guerra seria sul suolo europeo, le forze democratiche della società italiana si trovano oggi ad affrontare grandi sfide. Se a ciò si aggiungono la distruzione ecologica in corso e gli attacchi sistematici alle donne, si comprende facilmente quanto la società italiana di oggi sia anch’essa fortemente colpita dalla crisi della modernità capitalista. Gli sviluppi dall’inizio della guerra in Ucraina rendono chiaro che le forze democratiche del Paese devono affrontare la sfida particolare di difendere la loro società dagli attacchi ideologici sotto forma di nazionalismo e militarismo. Se ciò fallisce, le importanti lotte sociali contro la distruzione ecologica, contro la violenza patriarcale o contro la precarizzazione neoliberale del lavoro saranno sempre più marginalizzate in futuro, attraverso argomenti nazionalisti e retoriche di crisi o di guerra.

In quanto importante centro politico dell’Europa, le forze democratiche italiane hanno – volenti o nolenti – la responsabilità di contrastare la frantumazione dell’amicizia tra popoli nella regione con un’iniziativa consapevole e fiduciosa per un’Europa veramente democratica, culturalmente diversa, pacifica, ecologica, economicamente giusta, che viva insieme ai suoi vicini su un piano di parità. Le proteste e le resistenze su piccola scala, come l’opposizione alle grandi opere inutili, gli scioperi o le comunità in lotta nei quartieri popolari potranno quindi dare un contributo efficace a lungo termine alla democrazia, all’uguaglianza e alla libertà in Italia e in Europa solo se diventeranno parte di un’ampia alleanza sociale delle forze democratiche italiane. Aggrapparsi alla provvisorietà, alla frammentazione e al vuoto paradigmatico degli ultimi decenni non farebbe altro che invitare le forze statali di stampo liberale o fascista a strumentalizzare il crescente malcontento sociale per i loro interessi di potere e per i loro pericolosi piani.

Dalla caduta del Muro di Berlino, la società italiana non è stata in grado di percepire in modo così chiaro come oggi che la modernità capitalista è in crisi e che le condizioni sociali sono quindi in subbuglio. Di conseguenza giovani, donne, lavoratori e lavoratrici, e le diverse culture territoriali italiane sono attualmente alla ricerca di forze che diano risposte soddisfacenti alle loro paure, speranze e sogni. Rendere giustizia a tutto ciò può sembrare un compito arduo, visto lo stato attuale delle forze democratiche del Paese. È ancora più importante, quindi, che le persone che ne fanno parte si impegnino immediatamente ad assumersi questa responsabilità nei confronti della società, dell’Europa e dell’umanità.

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