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Diritti umani

Aram, storia di un giornalista apolide

Dall’Iran alla Siria, passando per Iraq e Turchia. Un “nemico” dello Stato causa l’informazione

Yousef Ibrahimkhas, noto come Aram, è un attivista politico curdo. Nasce nel 1987, in Iran, da una famiglia sempre pronta a contrastare le scelte antidemocratiche della patria degli scià. A causa di ciò, diversi familiari di Aram sono stati imprigionati, torturati e giustiziati dal Governo iraniano; l’intero nucleo familiare è stato esiliato per otto anni in zone remote e periferiche dell’Iran, anni durante i quali la famiglia di Aram ha dovuto affrontare molte difficoltà. Per tutti i familiari del giovane giornalista la causa dei maltrattamenti è sempre la stessa: le loro opinioni.

La storia di Aram inizia con la passione per il giornalismo politico, grazie alla quale è diventato, nel 2008, membro di diverse organizzazioni e istituzioni che si occupano di diritti umani. La diretta conseguenza di queste partecipazioni è stata l’espulsione dall’università e la reclusione, interrogatori e vessazioni. Dopo il pagamento di una cauzione per la libertà provvisoria imposta da un Tribunale iraniano, Aram è riuscito a fuggire dall’Iran all’Iraq, evitando un processo in cui i capi di imputazione erano da ricondurre al suo attivismo, punito, in Iran, con la pena di morte.

La sua lotta contro la Repubblica teocratica islamica è proseguita nel 2011, condotta dal territorio del Governo regionale filo-occidentale del Kurdistan d’Iraq. Qui Aram ha lavorato nei principali media iracheni, giornali, radio, televisioni e siti web.

In quanto attivista politico indipendente – e quindi in assenza di sostegno politico – Aram non ha potuto farsi riconoscere il diritto di asilo da Baghdad. Alla fine del 2011, ha così deciso di lasciare l’Iraq per presentare il suo caso alle Nazioni Unite, in Turchia, senza, però, ottenere risultati.

Diverse sono state le organizzazioni politiche con le quali ha collaborato per la difesa dei diritti del popolo curdo, perseguitato da oltre 50 anni in tutt’e quattro i Paesi in cui questa regione geografica è suddivisa. Tra le sue prime collaborazioni turche ci sono stati il giornale curdo ‘Azadiya Welat’, la ‘Radio Dunya’ ad Adana, che trasmette dalla penisola anatolica in tutto il Mediterraneo, ‘Radio Russia’ e il ‘Bulletin board- Committee’, sia come reporter che come anchor.

I servizi di intelligence turchi hanno cercato di ostacolare in ogni modo il suo lavoro.

Nel 2013, con i primi attacchi dell’ISIS sulla popolazione curda della Siria, Aram ha deciso di focalizzare il suo lavoro sulla documentazione della situazione dei civili curdi a Kobane e Shangal, ai quali garantiva, tra il resto, aiuti sanitari e beni di prima necessità.

Durante la sua permanenza nella provincia di Diyarbakir – dove si trovava senza visto e asilo, rischiando, così, di essere arrestato – il Governo turco ha rifiutato di garantirgli la protezione internazionale. In attesa che il suo caso venisse trattato dall’UNCHR il suo soggiorno turco è stato considerato illegale. Se fosse stato arrestato in Turchia per cause collegabili all’attivismo politico sarebbe stato deportato in Iran. Ha così preso la decisione di raggiungere la Siria, dove ci sarebbero state meno possibilità di esser espatriato in Iran. Un failed State che versa in una guerra civile da oltre 4 anni è diventato, paradossalmente, il posto più sicuro in cui potesse essere accolto, anche qua, ovviamente, in assenza di visto.

Aram spesso non ha accesso a internet e le sue condizioni sanitarie si aggravano di giorno in giorno.

Secondo l’art. 1 della Convenzione del 1954 relativa allo status delle persone apolidi, l’apolidia è la condizione di un individuo «che nessuno Stato considera come suo cittadino nell’applicazione della sua legislazione» e al quale, di conseguenza, non viene riconosciuto il diritto fondamentale alla nazionalità, né assicurato il godimento dei diritti ad essa correlati.

I due principali strumenti normativi internazionali in materia di apolidia sono la Convenzione relativa allo status delle persone apolidi del 1954 e la Convenzione sulla riduzione dell’apolidia del 1961. L’Italia ha ratificato e reso esecutiva la Convenzione relativa allo status degli apolidi del 1954 attraverso la legge del 1° febbraio 1962 n. 306, ma non ha ancora aderito alla Convenzione sulla riduzione dell’apolidia del 1961.

In Europa, gli apolidi dovrebbero essere circa 600mila; la nostra penisola conta finora 747 persone censite (Fonte ISTAT) che hanno accesso ai diritti fondamentali dell’uomo e del cittadino, ma attendono inesorabili la flemma della burocrazia, demandando la loro esistenza a decine di passaggi di pratiche presso altrettanti uffici. La maggior parte degli apolidi sono di provenienza balcanica e di etnia Rom, ma come si può censire un apolide se non ‘esiste’? Le stime sono fatte in base alle domande ricevute alle prefetture; ad essere accettate, però, sono solo quelle in cui si può attestare (con certificati di nascita o residenza) la provenienza dei richiedenti dai Paesi da cui si scappa. Molte persone che effettuano domanda di cittadinanza sono in assenza di documenti. Un cane che si morde la coda e che continuerà a farlo finché non ci sarà un maggiore riconoscimento della necessità di misure predisposte ad affrontare la questione. In Europa sono solo 4 i Paesi che non hanno ratificato la Convenzione del 1954 ossia Cipro, Malta, Estonia e Polonia.

Nonostante l’Italia sia abbastanza avanti nel riconoscimento dell’apolidia solo l’1% in 10 anni ha ottenuto la cittadinanza. Attualmente Amnesty International ha preso in carica il caso di Aram per cercare di dargli una casa.

di Roberto Mulas

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