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L’ISIS, il PKK e il futuro del Medio Oriente

Nilufer Koc, copresidente del KNK – Congresso nazionale del Kurdistan-Intervista realizzata in Erbil – Sud Kurdistan – Nord Iraq – 6 febbraio 2015

Dopo il crollo dell’Unione sovietica, nei primi anni Novanta, il nuovo ordine mondiale è stato rimesso in discussione, e il Medio Oriente è divenuto il punto centrale della questione. Qui, durante la guerra fredda, si erano formate due linee contrapposte: una tra i popoli arabi fondata e sostenuta dall’Unione sovietica, costituita dal Partito Baath, il quale si definiva un movimento socialista ma in realtà era fortemente panarabista; l’altra formata dai regimi supportati dalle potenze occidentali. Tale equilibrio politico, con la crisi del socialismo reale, cambiò radicalmente.

In questo periodo, gli anni Novanta, una prospettiva differente si aprì in Kurdistan: nel vuoto politico conseguente al collasso dell’Unione sovietica, i curdi di Turchia (Nord Kurdistan – Bakur) cominciarono a ribellarsi. Quando il socialismo di Stato era ormai caduto e l’Occidente aveva trionfato, ebbe luogo la prima insurrezione nel Nord Kurdistan, precisamente nel Newroz (21 marzo) del 1998. Nel giro di tre anni ogni città del Nord Kurdistan si era sollevata, dimostrando come il popolo curdo esprimesse una posizione differente rispetto a quella dei due blocchi; già durante la guerra fredda infatti, seppur indirettamente, i curdi erano espressione di una “terza via”, consapevoli che né la politica dell’Ovest né quella dell’Est potevano essere a loro favore avendo sofferto sotto entrambi. Questa tradizione continua tuttora.

All’inizio degli anni Duemila, noi curdi abbiamo capito di dover cambiare da noi la nostra storia, non dovevamo più guardare a questo o a quel fronte, dovevamo costruire da noi il nostro fronte. Da quel momento si può dire che i curdi abbiano appreso le lezioni della storia.

Nel corso del Novecento troppo spesso noi abbiamo servito gli interessi di Gran Bretagna, Francia, Stati Uniti, Unione sovietica, nelle quattro parti del Kurdistan, ovvero nel Kurdistan turco, siriano, iracheno e iraniano, intrappolati nella politica dei poteri egemonici della regione che hanno usato i curdi per i propri interessi.

Allora Abdullah Ocalan, il leader del popolo curdo, sostenne la necessità di un cambiamento radicale nella nostra storia: “finora siamo stati uno strumento nelle mani dei poteri regionali, ora dobbiamo muoverci diversamente”. Per prima cosa egli sostenne la necessità di un confronto con i regimi che ci stanno opprimendo, perché nel passato i curdi sono stati usati contro i turchi, gli arabi e i persiani attraverso la fondazione dei quattro Stati nazione, Iraq, Iran, Siria e Turchia in seguito al trattato di Losanna, con il quale fu tracciata la mappa artificiale della regione che è all’origine dell’oppressione delle minoranze, del genocidio degli armeni e di quello tuttora in corso dei curdi. Ocalan sostenne la necessità di cambiare tutto ciò: i curdi non dovranno più servire gli interessi di altri, i curdi hanno altri interessi.

Il primo punto è stato la necessità dell’autodifesa, i curdi devono potersi difendere dagli attacchi dei militari iracheni, turchi, iraniani o siriani, devono potersi difendere militarmente per affermare il diritto di esistere. Il secondo punto: l’unico potere che può cambiare la regione è il potere del popolo; così nel Nord Kurdistan il PKK ha incominciato a organizzare tutta la società, nell’ottica di promuovere l’autorganizzazione dal basso.

Dal 2000 Ocalan ha sottolineato la necessità per i curdi di dotarsi di infrastrutture e la possibilità di agire nel Parlamento turco come nella società civile, in modo da imparare come amministrare le proprie municipalità locali, così abbiamo cominciato a candidarci nelle elezioni municipali in Nord Kurdistan e ora abbiamo conquistato l’amministrazione di oltre cento municipalità, imparando come auto-governarci a livello locale.

Questa tradizione dei curdi del Kurdistan del nord ha influenzato i curdi di Rojava, in Siria del nord, dove Ocalan ha trascorso vent’anni facendo personalmente un lavoro di educazione, insegnando a donne, giovani, artisti, giornalisti, intellettuali, un lavoro di educazione incentrato soprattutto sulla questione del cambiamento della condizione delle donne; pur essendo sotto la pressione del regime di Assad, Ocalan ha promosso in ogni modo la presa di coscienza dei curdi in Rojava per la loro auto-organizzazione. In questo modo i curdi in Rojava e in Bakur (Turchia) hanno appreso l’arte di auto-governarsi, auto-amministrare le proprie comunità locali.

Il punto importante dell’insegnamento di Ocalan in Siria è stato il fatto di dialogare con gli arabi, con gli armeni e gli assiri. Come scrive in molti dei suoi testi in cui ha studiato la storia degli assiri, degli arabi, ecc., i poteri egemonici dell’area, compreso il regime baath, vi useranno gli uni contro gli altri, e questo dialogo è un modo di prevenire questo pericolo; così queste due parti del Kurdistan sono state ben preparate per ogni possibile cambiamento radicale in Medio Oriente, e questa penso sia stata la migliore eredità della politica di Ocalan e del PKK: la politica di prevenzione.

L’analisi di Ocalan rispetto al Medio Oriente si concentra sul fatto che le politiche delle potenze egemoniche dell’area avranno come fulcro la zona del Kurdistan. Primo, perché la posizione geografica del Kurdistan è strategicamente molto importante, Secondo, perché le risorse d’acqua dell’intero Medio Oriente dipendono dai due fiumi che attraversano il Kurdistan, il Tigri e l’Eufrate. Terzo, perché in Kurdistan, in particolare in Rojava e in Basur (Iraq) ci sono giacimenti di petrolio e di gas, e ciò rende il Kurdistan centrale; perciò noi curdi dobbiamo essere concentrati sulla politica di prevenzione, che significa imparare la storia, tutta la storia, e non ripetere gli errori commessi nel passato, non essere strumenti o burattini altrui. Quarto, l’insegnamento base del passato sta nel fatto che noi abbiamo problemi con gli Stati, non con i popoli degli Stati: noi abbiamo problemi con il regime turco, con quello arabo e con quello persiano, non con il popolo turco, arabo o persiano. Perché la politica del passato in Medio Oriente è stata sempre quella di usare un gruppo etnico contro l’altro, in questo senso la politica di prevenzione significa tenere insieme i popoli.

Questa è una nuova cultura in Medio Oriente, inaugurata dalla filosofia elaborata da Ocalan e praticata dal PKK, partendo dal Nord Kurdistan, arrivando in Rojava e ora influenzando i curdi nell’Est e nel Sud. In questo modo, con questo retroterra, i curdi sono ora in grado di rappresentare un’alternativa per il Medio Oriente.

Oggi il Medio Oriente si trova in una situazione di profonda crisi e caos, gli Stati Uniti e altri Paesi europei stanno incoraggiando dei cambi di regime, come nelle cosiddette primavere arabe, nei cambi di regime in Egitto, Libia, Yemen, Tunisia e in altri Paesi del Nord e Centr’Africa, o anche come in Iraq dopo la caduta di Saddam Hussein… Ma noi abbiamo visto cosa significa, la sostituzione di dittatori, i cambi di regimi, non rappresentano altrettanti cambiamenti della società, dal basso. Invece ciò di cui noi abbiamo bisogno qui è democrazia, è la realizzazione di un Medio Oriente multi etnico e multi religioso, senza il dominio di un singolo gruppo sugli altri.

Le impostazioni nazionali o religiose sono da sempre state le armi dei poteri egemoni nel passato, e in questo frangente l’unico gruppo etnico in grado di tenere insieme i popoli sono i curdi, perché i curdi sono sempre stati sottomessi dagli altri, sanno che la soluzione di una nazione fondata su una identità etnica e religiosa non è la soluzione adatta per la regione. Quello di cui c’è bisogno è una reale democrazia che tenga insieme tutte le componenti dell’area e in quest’ottica tutti i confini sanciti dal Trattato di Losanna sono confini artificiali, che non rispecchiano gli interessi dei popoli. Se si osserva, ad esempio, il confine tra Rojava (Siria) e Turchia, si vede come sono state divise in due famiglie, campi, case, la stessa cosa vale per i confini tra Nord e Sud Kurdistan (Turchia e Iraq)… i confini non garantiscono alcuna sicurezza o beneficio per le popolazioni, e sono controllati da regimi corrotti e dittatoriali che opprimono sia i curdi che gli altri gruppi etnici e religiosi.

Un cambiamento radicale non significa un cambio di regime ma innanzitutto un cambio di mentalità, occorre far capire ai regimi e al mondo intero che in ogni Paese, Iraq, Iran, Turchia e Siria, ci sono differenti gruppi etnici e religiosi, e l’unica soluzione possibile deve partire dalle comunità locali.

Se ad esempio guardiamo al Rojava ci sono zone abitate da sunniti, arabi sunniti, zone abitate da turcomanni, da assiri, da armeni, oltre che da curdi; anche nel Kurdistan iracheno ci sono turcomanni, ci sono armeni, ci sono assiri, arabi, e poi curdi ezidi, aleviti, sciiti, sunniti, perciò questa struttura sociale necessita che si trovi un modello politico adeguato, nel quale ogni componente possa esprimere se stessa, per prima cosa in cui ognuna di esse abbia il diritto all’autodeterminazione, e poi che ci sia ad un livello più alto un coordinamento tra tutte, c’è bisogno di un sistema politico radicalmente nuovo qui. Gli altri sistemi politici che ci sono stati qui nel passato sono stati all’origine di genocidi, massacri, uccisioni, corruzione e oppressione. Perciò io penso che oggi questo processo di cambiamento politico coinvolga il popolo curdo: in ragione della filosofia elaborata da Ocalan.

Quando l’ondata delle “primavere arabe” ha coinvolto la Siria, e da più parti si parlava della necessità di rovesciare il regime di Assad, già in quel frangente i curdi di Rojava sostenevano che quella non era la priorità, Assad poteva restare o andarsene, il nostro problema non è un singolo dittatore, il nostro problema è la costituzione di una democrazia. Il nome dello Stato in Siria è: “Repubblica araba siriana”, la Repubblica degli arabi, ma in Siria non ci sono solo arabi, ci sono curdi, armeni, assiri, ceceni, turcomanni e drusi, quindi dire che questa è la Repubblica degli arabi significa nel migliore dei casi ignorare tutti gli altri gruppi etnici e religiosi. Ciò che diciamo noi è che questo è ciò che bisogna cambiare, così come per la Turchia che con la sua ideologia panturca dice che nel suo territorio ci sono solo turchi, che la lingua ufficiale è il turco, la bandiera è la bandiera turca, ma questo non è vero perché in Turchia ci sono oltre sessanta differenti culture e gruppi etnici…

Così, ciò che abbiamo imparato dalle primavere arabe è che noi come curdi abbiamo aperto un’opzione alternativa per i sogni di tutti gli altri popoli della regione. Ciò, in primo luogo, per il fatto che noi siamo ben organizzati, ci siamo organizzati nel corso degli ultimi quarant’anni in tutte le parti del Kurdistan. In secondo luogo, noi non siamo mai stati un’etnia dominante, che ha esercitato il potere, noi siamo sempre stati oppressi, perciò il nazionalismo è qualcosa di estraneo ai curdi, nazionalismo e razzismo non fanno parte della cultura curda, ci sono soltanto alcuni intellettuali nella diaspora, ma sono soltanto un’infima minoranza, la stragrande maggioranza dei curdi sono convinti di poter condividere la terra con gli altri gruppi. Perciò i curdi sono in grado di mettere in pratica la filosofia dell’unità nella diversità. Perché i turchi, gli arabi e i persiani sono stati educati dai propri Stati all’idea di essere gli unici, sono stati educati all’idea di essere nati per dominare. Invece i curdi hanno imparato che possono autogovernarsi da sé, perciò nessuno Stato è più in grado di governarli; questo è ciò che è stato sperimentato in Nord Kurdistan (Turchia) e oggi in Rojava.

Noi abbiamo dimostrato al regime baathista siriano di non aver bisogno di lui; noi ci siamo autodifesi prima da Al-Nusra, poi da ISIS, non siamo stati protetti dal regime siriano, noi non siamo protetti da alcun altro regime. Noi abbiamo combattuto contro Al-Nusra, e dietro Al-Nusra c’erano una serie di regimi come l’Arabia Saudita, il Qatar, la Giordania e la Turchia. Così noi abbiamo combattuto non soltanto contro ISIS, noi abbiamo combattuto contro la Turchia, l’Arabia Saudita, la Giordania e il Qatar; se si fa un bilancio, noi abbiamo combattuto contro degli Stati; è perciò che quando abbiamo vinto abbiamo affermato: noi abbiamo battuto la Turchia. In particolare nel conflitto di Kobane abbiamo sostenuto: noi abbiamo vinto e la Turchia ha perso.

In questo senso la vittoria contro ISIS non è importante solo per i curdi ma per tutti i popoli, perché dai fatti di Sinjar, l’anno scorso, il messaggio chiaro lanciato dai curdi, dal PKK, è stato: noi abbiamo vinto la battaglia di prevenzione dello scontro fratricida, noi abbiamo reso evidente che ISIS è uno strumento della classica politica dei poteri egemonici, la politica del divide et impera, dell’usare un gruppo etnico contro l’altro, in questo caso sotto il nome dell’Islam.

ISIS è uno strumento che sta usando l’Islam in modo molto professionale, ma l’Islam è una copertura, non hanno nulla a che vedere con l’Islam. Nella politica di ISIS è evidente che è la Turchia che sta usando ISIS. Inizialmente la Turchia fu davvero infastidita dal fatto che, nel 2003, il Kurdistan iracheno divenne uno Stato de facto, poi ha visto che i curdi della Siria hanno approfittato del vuoto di potere in Siria dal 2011 per stabilire una propria autonomia nel Nord Siria (Rojava), e poiché la Turchia ha 900 chilometri di confine con la Siria, abitata da tutti e due i lati da curdi, la sua paura è che dopo il Kurdistan iracheno anche il Kurdistan siriano conquisti una propria autonomia, ed è perciò che sta supportando ISIS, per prevenire ogni autonomia curda nell’area.

Ma la rivoluzione in corso in Rojava, al di là dei discorsi della Turchia, di ISIS o di chiunque altro, in realtà è l’opportunità di sperimentare un nuovo e alternativo sistema per i popoli della regione; dopo due anni di preparazione sono riusciti a creare un nuovo sistema insieme agli arabi, assiri, armeni, ceceni e turcomanni in Rojava, che è stato dichiarato nel 2013 come Autonomia Democratica del Rojava. Ciò che hanno compreso è che il Rojava è multietnico e multireligioso e dunque c’è bisogno di un modello politico locale, e il migliore che hanno trovato in quest’ottica è il modello cantonale, che significa un’organizzazione fondata sulle piccole comunità locali, poiché per esempio in una città come Qamishlo ci sono zone abitate da armeni, altre abitate da curdi, altre da assiri, e ognuna di queste comunità ha il diritto di autodeterminarsi, ma al livello organizzativo più alto della città c’è un’assemblea comune in cui ognuno è rappresentato.

La democrazia del Rojava non è fondata sul voto, poiché se seguissimo il meccanismo elettorale la maggioranza sarebbe dei curdi, il funzionamento della democrazia è fondato sul protagonismo dei piccoli gruppi, che devono essere essi stessi al centro dei progetti che li riguardano.

La democrazia, inoltre, non è solo questione di solidarietà reciproca tra i vari gruppi etnici, poiché come i curdi, gli armeni, gli assiri e gli arabi sono società molto patriarcali, molto maschiliste. Se vogliamo costruire un’alternativa al precedente regime, se vogliamo costruire una democrazia radicale, ciò comporta cambiamenti sociali all’interno, necessita dei principi di fondo che tutte le comunità devono rispettare, e questi sono stati scritti nel Contratto sociale del Rojava, e il punto principale di questo contratto sociale è che ogni comunità deve rispettare i pieni diritti delle donne, poiché tutti i gruppi etnici e religiosi hanno problemi interni, essendo fortemente patriarcali e maschilisti.

Per questo la democrazia radicale è fondamentale per mantenere la pace. Se una società sa rapportarsi con tali problemi e risolverli, tale società è davvero potente, ma se la società ha problemi di democrazia interni, ovvero le donne sono oppresse, tale società non è stabile, in questo senso la democrazia interna in Rojava è garantita dalla piena partecipazione delle donne. Questo è uno dei principi cardine dell’esperienza del Rojava: l’unità nella diversità non si intende solo tra gruppi etnici e religiosi, ma anche tra le donne e gli uomini.

In questo frangente di crisi del Medio Oriente, il Rojava rappresenta un’alternativa in quanto sta producendo una soluzione. Il Rojava può essere anche una piccola esperienza ma sta producendo effetti molto grandi, perché è una rivoluzione che sta creando un’alternativa praticabile, e la gente è in cerca di alternative. I regimi dei poteri regionali non sono in grado di rappresentare una soluzione, i poteri regionali come Turchia, Iran e anche Iraq e Siria insistono sulla politica di annichilimento dell’altro; gli altri regimi a livello globale stanno perseguendo i loro interessi economici e strategici; così, la terza forza nell’area, i curdi, stanno affermando: ok, se non siete interessati a garantire una soluzione democratica per noi, lo faremo noi stessi, e il Rojava è l’esempio di questa idea.

In questo senso la rivoluzione in Rojava è qualcosa di eroico, non solo per l’eroica resistenza dei guerriglieri nell’autodifesa; è vero che abbiamo combattuto davvero eroicamente, abbiamo migliaia di martiri uomini e donne di differenti nazioni, non solo curdi, ma il Rojava è diventato il simbolo di un’eroica rivoluzione anche in quanto ha combattuto ed è sopravvissuto non soltanto all’ISIS, è sopravvissuto alle sanzioni economiche e alla disinformazione politica. A lungo infatti diversi regimi hanno accusato il Rojava di collaborare con il corrotto regime di Assad, e ora anche altri stanno dicendo: ok, non è importante se Bashar Al Assad rimane o se ne va. Stanno sostenendo quello che il Rojava dice da tre anni: il problema non è il regime di Assad, il problema è un cambio di sistema, e ora la Russia sta dicendo lo stesso, gli Stati Uniti dicono lo stesso, la Germania e gli altri poteri globali dicono lo stesso, sono arrivati alla stessa conclusione che in Rojava sosteniamo da tre anni.

I tre anni di resistenza in Rojava hanno raggiunto il loro punto più alto a Kobane. A Kobane c’è stata una storica e incredibile resistenza, per quattro mesi centinaia di guerriglieri, donne e uomini, armati di kalashnikov, hanno combattuto contro un’organizzazione terrorista come ISIS, molto ben equipaggiata tecnologicamente e con il pieno supporto logistico della Turchia. Kobane è stata una sorpresa per tutti i popoli oppressi, è perciò che la vittoria di Kobane è di incoraggiamento per tutti i popoli che sono minacciati e spaventati da gruppi terroristici come ISIS o da altre dittature.

I curdi hanno dimostrato che è possibile sconfiggere le dittature o i gruppi terroristici. Quindi i popoli ora stanno traendo speranza dalla rivoluzione in Rojava e in particolare dalla vittoria a Kobane, e il più importante messaggio simbolico di Kobane, o meglio la verità della vittoria di Kobane, per tutti i popoli, è che questa vittoria rappresenta l’inizio della fine di ISIS. Se guardiamo i media occidentali o anche turchi, hanno presentato ISIS come il gruppo più brutale, più spaventoso e la più potente organizzazione terroristica, nessuno sembrava poter sconfiggere ISIS, ma Kobane ha dimostrato che non è vero, che si può sconfiggere ISIS, anche con armi semplici, l’importante è che chi combatte abbia una visione, una prospettiva e la fiducia in se stessi, e la fiducia in se stessi la si ha quando si sa che cosa si vuole.

Credo che l’esperienza e la vittoria di Kobane abbiano dato ai popoli il sentimento della fiducia in se stessi; e ora, dopo Kobane, i curdi, i curdi Ezidi, e tutti gli altri gruppi etnici nel Kurdistan iracheno, così come in Turchia e in Iran, stanno ripensando il proprio destino, stanno dicendo: non è il nostro destino essere oppressi, si può cambiare, ma bisogna farlo insieme, con la solidarietà.

È vero che il Rojava è un puntino sulla mappa del mondo, ma ha un’importanza universale.

La vittoria del Rojava c’è stata perché milioni di persone nel mondo hanno mostrato la loro solidarietà, e questo è ciò che ha portato i nostri guerriglieri a dire: noi dobbiamo vincere, per tutti coloro che ci stanno guardando sperando nella pace, nella libertà e nella stabilità della regione.

Quindi il messaggio di Kobane per tutti, in quanto individui, è: possiamo vincere se siamo ben organizzati, se abbiamo fiducia in noi stessi, e se abbiamo consapevolezza che i nostri nemici non sono i più forti, loro hanno un punto debole. E il loro punto debole si può comprendere se noi conosciamo il loro background ideologico, se conosciamo a fondo il loro gioco. È così che i guerriglieri e il popolo del Rojava hanno vinto, perché sapevano chi ha creato ISIS, chi lo stava usando, e quale ideologia ISIS sta seguendo.

Si tratta di un’ideologia contro un’altra. Da una parte, una ideologia che è contro il popolo, anche se i combattenti di ISIS provengono da differenti nazioni ed etnie; la maggior parte di loro non conosce l’Islam, hanno imparato una errata interpretazione dell’Islam, hanno imparato il lato cattivo di un Islam politico, di un Islam egemonico, anche se non mi sento di condannarli in quanto sono stati vittime di un lavaggio del cervello, ma la leadership di ISIS è molto ideologica, molto panarabista, così hanno potuto costruire una coalizione con la Turchia, e se necessario saranno in grado di coalizzarsi con l’Iran, ma sicuramente saranno anti curdi, anti donne, anti ogni realtà che non sia sunnita o araba o turca.

Perciò per opporsi bisogna mettere tutti i popoli insieme, per dire che tutti hanno il diritto di esistere, ma che nessuno deve comandare sugli altri, che noi ci governeremo da soli, tutti insieme. Questa è l’altra ideologia, guidata dal PKK, da Ocalan, e che ora sta dilagando in tutte le quattro parti del Kurdistan, ripensando il Kurdistan come un Paese multietnico e multireligioso, e non solo come il Paese dei curdi. Perciò ora i curdi devono insegnare agli altri a convivere reciprocamente, a dare e a prendere dagli altri, imparando dagli altri e facendo del Medio Oriente un posto dove si possa vivere senza il costante pericolo di essere uccisi da chicchessia, perché qui è troppo facile morire, qui la vita umana non ha alcun valore, ci sono stati troppi morti, troppi arabi, troppi curdi…

Noi vogliamo autodeterminare le nostre vite, vogliamo smettere di ucciderci, vogliamo cancellare l’idea per cui siamo destinati a morire presto. Noi possiamo vivere qui, e possiamo vivere liberi, questo è possibile, e io credo che noi curdi siamo sulla strada giusta per farlo e per convincere tutti i nostri vicini a farlo con noi. E la solidarietà internazionale è molto importante in ciò, anche perché non è solo un nostro problema, ISIS non è solo un nostro problema. ISIS, come Al Nusra, è un prodotto dei regimi che l’hanno allevato e sostenuto negli ultimi anni, come la Turchia, e anche dei regimi occidentali che dovrebbero far pressione sulla Turchia affinché smetta di sostenere ISIS, così come sull’Iran, perché tali regimi devono permettere ai popoli di decidere per loro stessi, di autodeterminarsi… tutti i regimi e i governi devono comprendere che la regione ha bisogno di pace, di stabilità, e se il Medio Oriente non sarà in grado di ottenerle, ci saranno conseguenze in Europa, come abbiamo visto con gli attacchi in Parigi a gennaio.

Ovunque ci sono musulmani possono essere usati per questa idea, perché l’Islam è una questione che ha 1400 anni, è un problema non risolto, ci sono musulmani in Italia, in Spagna, in Germania, in Inghilterra, ovunque, perciò la nostra battaglia qui è qualcosa nell’interesse di tutti coloro che non vogliono incrementare il terrorismo contro i popoli, in questo senso la solidarietà con Kobane è una delle ragioni della sua vittoria, e la solidarietà con i curdi in Rojava, come in Bakur, Basur e Rojelat, significa proteggere il Medio Oriente e prevenire la guerra fratricida con tutte le sue conseguenze.

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