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Elezioni amministrative in Turchia: resistenza e repressione

Il 31 marzo si sono svolte le elezioni amministrative in Turchia. Il presidente Erdoğan e il suo partito, l’AKP (Partito della Giustizia e dello Sviluppo), hanno subito una pesante sconfitta nelle principali città come Istanbul, Ankara e Sirte. Anche nel Bakur, la regione del Kurdistan turco, c’è stata una forte riaffermazione del partito di opposizione HDP (Partito Democratico dei Popoli), che ha riconquistato le principali città della regione. Dato l’alto rischio di violenze elettorali e il livello di repressione della Turchia in stato di emergenza, l’HDP ha lanciato anche in quest’occasione la richiesta di monitoraggio a volontari internazionali, in modo che la loro presenza facesse da deterrente alle violazioni più palesi.

Molte delle città in cui si sono svolte le elezioni erano amministrate da delegati del governo, in quanto la larghissima maggioranza dei co-sindaci eletti alla precedente tornata erano stati arrestati con l’accusa di terrorismo. Dei 109 co-sindaci democraticamente eletti, solo 15 sono rimasti in carica fino a fine mandato.

In occasione di queste elezioni decine di candidati sono stati arrestati ancora prima dell’apertura dei seggi.

A loro e a centinaia di attivisti è stato quindi impedito di partecipare alla campagna elettorale e di competere liberamente. Le forze di opposizione sono quasi del tutto assenti dai media nazionali, pesantemente controllati e influenzati da Erdoğan e dal suo partito; il presidente è onnipresente nelle televisioni e sulle pareti di ogni città, per quanto piccola.

Per rendere ancora più difficile la partecipazione degli elettori, la divisone dei seggi è stata ripetutamente sconvolta sia attraverso la riforma costituzionale del 2017, sia a causa dell’enorme numero di sfollati nella regione in seguito alla campagna militare governativa del 2015-2016.

Per tutta la durata della campagna elettorale e delle votazioni, l’esclusione e la marginalizzazione dei cittadini kurdi da parte del governo si è manifestata in diverse forme.

Gli aerei diretti verso le città del Bakur, raggiungibili solo con voli interni monopolizzati dalla Turkish Airlines TM, hanno subito numerosi ritardi e cancellazioni. Anche gli autobus e i trasporti interni su gomma, necessari per raggiungere i seggi dislocati nelle più piccole località, hanno subito dirottamenti da parte della polizia. Tra le numerose irregolarità segnalate dagli osservatori internazionali risulta almeno un caso nel villaggio di Kude, situato nel distretto di Ӧmerli, in cui 350 schede elettorali sono state compilate direttamente dai militari.

Le spedizioni degli osservatori internazionali sono state limitate ed ostacolate: dei 110 volontari che avevano risposto all’appello dell’HDP, 14 sono stati respinti alla frontiera e dichiarati ospiti non graditi senza alcuna accusa né spiegazione riguardo la ragione del respingimento.

Chi è riuscito a raggiungere la regione a maggioranza kurda, ha trovato serie difficoltà e capillari controlli per arrivare ai seggi assegnati, e diverse delegazioni sono state bloccate dalla polizia all’esterno dei seggi o addirittura all’interno delle sedi del partito.

In molti dei villaggi più isolati, i candidati dell’HDP hanno riportato testimonianze di pesanti intimidazioni, dalla massiccia militarizzazione dei seggi (testimoniata anche dagli osservatori), a casi più estremi di interi villaggi costretti al voto palese fuori dalla cabina elettorale.

In tutto il paese, e nel Bakur in particolare, si sono raccolte decine di testimonianze di aggressioni da parte di militanti dell’AKP ai danni degli elettori, e in alcuni casi anche dei candidati stessi: nel distretto di Kulp la candidata co-sindaca, Fatma Ay, ha denunciato di essere stata aggredita insieme ad altri attivisti dai sostenitori dell’AKP, ed è stata ricoverata in ospedale senza che le fosse concesso di accedere al seggio.

Nonostante le numerose operazioni di disturbo al corretto svolgimento delle operazioni elettorali e la manipolazione dei risultati, le maggiori città della regione hanno visto una forte riaffermazione dell’HDP, che è riuscito ad eleggere i co-sindaci in 8 città e 45 distretti, tra cui Diyarbakir, Mardin e Van, con tassi di affluenza che hanno superato l’80%.

Come per i loro predecessori, per molti degli eletti è concreta la minaccia di arresti arbitrari, che impediscano il loro insediamento e il regolare svolgimento delle proprie mansioni. I candidati denunciano il sistematico smantellamento delle conquiste ottenute sul piano amministrativo e culturale, stabilite sul modello del Confederalismo Democratico. Il sistema di co-rappresentanza uomo-donna non viene riconosciuto dal governo, che ha rimpiazzato i co-sindaci arrestati con commissari nominati dal presidente (tutti uomini).

Gli amministratori di sua fiducia, messi al posto dei rappresentanti eletti, hanno sistematicamente interrotto le attività istituzionali orientate alle questioni femminili, e ogni forma di sostegno ai centri di supporto e ai centri di accoglienza per le donne, sostituendoli invece con uffici matrimoniali, unità religiosa islamica e atelier di lavoro manuale.

Anche le spedizioni degli osservatori internazionali sono state criminalizzate dalla narrativa del governo di Erdoğan, che li ha descritti come “sostenitori del terrorismo” e ha così giustificato le espulsioni arbitrarie e le limitazioni della loro libertà di movimento.

Il clima generale di repressione e controllo, censurato in Turchia e decisamente minimizzato dai media europei, è stato invece palese per gli osservatori internazionali, che hanno potuto prendere parte al processo.

Le strategie messe in atto dal governo di Erdoğan non hanno comunque impedito l’affermazione dei diversi partiti di opposizione in gran parte della Turchia né il pesante ridimensionamento dei consensi per l’AKP. All’indomani delle elezioni il consenso del partito dominante è in calo e la sua presa sulle istituzioni appare avere sempre meno strumenti di legittimazione a disposizione.

Delegazione italiana di osservatori internazionali

 

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