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Rassegna Stampa

Il viaggio per conoscere la verità

Potresti presentarti un po’ per i nostri lettori?

Mi chiamo Sara Montinaro, ho studiato giurisprudenza. Sono specializzata in violazione dei diritti umani, immigrazione e diritto internazionale umanitario; sono stata procuratrice a Parigi presso il Tribunale Permanente dei Popoli sulla Turchia e il popolo curdo nel 2018 ed ho lavorato con il giudice Essa Moosa in Sud-africa. Da sempre attivista politica e dei diritti umani, ho altresì collaborato alla realizzazione di diversi progetti in Rojava ed ho partecipato a missioni umanitarie nei Balcani, in Grecia, in Tunisia, in Cisgiordania-Palestina, in Turchia, nel Kurdistan iracheno e in Rojava.

Come hai conosciuto il popolo curdo?

Ho conosciuto il popolo curdo nel 2011, durante il mio progetto erasmus in Turchia. Alcuni compagni di università mi raccontarono di come furono costretti a lasciare i propri villaggi nel sud est della Turchia a causa degli incendi nei villaggi. Da lì ho avuto la possibilità di recarmi in diverse città del Bakur: così ho conosciuto il popolo curdo. Nel corso degli anni, grazie a diverse carovane e delegazioni sono stata in contatto sempre più spesso con questo popolo, ho partecipato ai Newroz ed ho imparato a conoscere e condividerne gli ideali. Sono stata diverse volte a Suruc, ma anche ad Amed, Hasankeyf ed in altre città. Come accennavo, ho partecipato alla costruzione del Tribunale Permanente dei Popoli sui crimini commessi dalla Turchia sul popolo curdo; quindi ho seguito l’aspetto giuridico sui crimini commessi in particolare nei coprifuochi tra il 2015 ed il 2017 in Cizre, Nusaybin, Sirnak, Sur, etc….

Come nata l’idea di scrivere questo libro? (potresti parlarci brevemente del libro)

L’inizio di questo secolo è stato testimone di uno dei fenomeni più brutali della nostra era. L’Isis – conosciuto anche come Daeş – è stato capace in breve tempo di organizzarsi in modo capillare, fino a conquistare vasti territori tra la Siria e l’Iraq, ma non solo. Nel marzo 2018, grazie soprattutto alla resistenza delle Syrian Democratic Force ed al supporto dalla Coalizione Internazionale, è stata proclamata la sua sconfitta ma i continui attacchi, le cellule dormienti, e quanto accade nel campo di Al Holl ci fanno capire che l’ISIS è stato sconfitto solo geograficamente, mentre la sua mentalità continua a proliferare. Questo libro è un modo per entrare nel merito della tematica e, a partire dalla quotidianità e dalle storie delle “spose di Daeş” e dei foreign fighters accorsi da tutto il mondo, comprendere come si sia originata questa organizzazione, individuandone l’architettura amministrativa e la sua evoluzione nel tempo. Un viaggio per far luce sulle ragioni e sulle motivazioni, non solo religiose, che sostengono l’Isis e per conoscere la realtà che si cela all’ombra del conflitto.

Nel libro sottolineo inoltre l’estremo approccio misogino di Daeş: un sistema basato sullo sfruttamento del genere e sul dominio sessuale, in cui l’istituzionalizzazione della schiavitù e la creazione di una teologia dello stupro come attività religiosa sono solo alcune delle pratiche di annichilimento e asservimento utilizzate nei confronti della donna. é necessario che tutti conoscono cosa sia accaduto; la comunità internazionale e gli stati europei si devono assumere le proprie responsabilità. Solo con un Tribunale Internazionale che faccia luce su cosa è accaduto, solo con la verità si può avviare un processo di pacificazione nel territorio. La comunità internazionale non può continuare a rimanere inerte. Questo è un fenomeno globale, che riguarda tutti noi; ed è solo globalmente ed in modo collettivo che si risolve.

Perché hai proprio scelto questo titolo “Daeş Viaggio nella banalità del male”?

Daeş è l’acronimo di Al-dawla al-islamiya fi al-Iraq wal-Sham. Per i seguaci del Califfato è una blasfemia utilizzare l’acronimo, perché bisognerebbe dire il nome per intero. Ho deciso di utilizzare questo termine perché è così che viene chiamato dalla popolazione autoctona; sostantivo che in termini dispregiativi significa “calpestare/distruggere”. 

Il riferimento ad Hannah Arendt poi, è stato naturale. In una parte del libro descrivo, a partire dalle interviste ad alcuni foreign fighters o, per esempio, attraverso la descrizione di documenti, la vita quotidiana durante il Califfato. Ad esempio ho trovato un documento nel quale si chiedeva alla popolazione di denunciare atti, azioni che fossero in un qualche modo sospetti, senza la necessità che alcun crimine fosse effettivamente commesso; sulla base quindi del solo sospetto. Un meccanismo formale, quasi burocratico, inserito all’interno di un sistema come quello di Daeş, che diventa un’azione quotidiana ed uno strumento per controllare e terrorizzare. Il richiamo è dunque, legato alla presenza di elementi simili tra il regime nazista e lo Stato islamico, come ad esempio il ricorso a una violenza capillare e sistemica e allo strumento del terrore ai fini dell’esercizio di una politica di dominio, elementi che accomunano i totalitarismi e le politiche che io definisco dell’odio, delle barbarie, caratterizzate da una violenza che non è per nulla casuale e che viene utilizzata come dispositivo di diffusione della paura e di controllo.

Sei stata nel Rojava. Come hai vissuto il viaggio ed il tempo in cui sei stata nel Rojava? (Potresti darci qualche esempio)

Sono stata in Rojava, dove ho lavorato con la Mezzaluna Rossa Curda. Lì, assieme alle colleghe ed ai colleghi, abbiamo lavorato tanto per garantire aiuti umanitari e assistenza medica di base durante la pandemia del Covid. Abbiamo costruito ospedali, campagne di informazione sull’importanza della prevenzione, aperto un centro per fare la Mammografia a Qamisli, distribuito acqua quando la Turchia chiudeva la diga di Alouk, abbiamo lavorato sia nei campi profughi che nelle città. I progetti sono tanti e continuano ad aumentare. Non è facile lavorare con così pochi strumenti e medicinali. Ma tutti facciamo del nostro meglio. Ho conosciuto delle persone speciali ed è stato un piacere per me poter vivere la mia esperienza con loro.

Cosa pensi della resistenza delle donne curde?

L’ISIS ha costruito un impianto che ha avvallato forme di oppressione e violenza, in particolare nei confronti delle donne: matrimoni forzati, schiavitù sessuale, poligamia, delitti d’onore, stupri come arma di guerra sono solo alcune delle pratiche utilizzate per seviziare le donne, in virtù delle quali la dominazione maschile è diventata strumento di potere egemonico.

Nel medesimo contesto la resistenza delle curde, grazie alle YPJ (Unità di Protezione delle Donne) sono riuscite con la loro determinazione ad opporsi e a sconfiggere il sedicente Califfato. Sono diventate un simbolo in tutto il mondo. Questo è stato un passaggio molto importante!

L’immaginario del kalashnikov e la tenuta mimetica  sono diventate, per un periodo, una moda in occidente. Certo, bisogna però fare attenzione ed andare oltre la retorica e l’immaginario esotico. Rimuovendo la copertina infatti si scopre una realtà altra, diversa dove, come dice Elsa Dorlin,l’autodifesa diventa l’unica pratica possibile sia per conservare la propria vita che per riaffermare la propria esistenza sociale.

Qui, la resistenza delle donne curde ha trovato nell’auto-difesa uno strumento di empowerment e di libertà delle proprie vite. La resistenza delle donne curde ci insegna come ricostruire un’alternativa basata sui valori di libertà, in cui l’autorganizzazione diventa un metodo di liberazione. La donna dunque come elemento propulsore nella democratizzazione della società, dove l’autodifesa diviene capacità di trasformazione delle logiche di dominio esistenti e la capacità di organizzarsi diventa sinonimo di liberazione della società tutta.

Scalfire l’approccio patriarcale e classista della società per andare a disegnare un nuovo modello di organizzazione. é una battaglia continua, che coinvolge tutte noi.

La resistenza delle donne curde ci insegna che non è più solo un ideale, ma che è una possibilità praticabile. E questo deve essere da stimolo per tutte le donne nel mondo. Non si può essere libere da sole; si può essere libere solo se siamo libere tutte assieme. Ringrazio quindi chi ieri, come oggi e come domani, continua a lottare per un mondo migliore.

di  REWŞAN DENİZ

Yeni ÖZGÜR POLİTİKA 

https://www.ozgurpolitika.com/haberi-gercegi-ogrenmenin-yolculugu-150877

 

Chi è Sara Montinaro?

Specialista in diritti umani, immigrazione e diritto internazionale dei diritti umani. Ha lavorato come avvocato presso la Corte permanente del popolo istituita per la Turchia e il popolo curdo a Parigi nel 2018, Montinaro ha lavorato con il giudice Essa Moosa in Sudafrica. Continuando contemporaneamente il suo lavoro di attivista, Montinaro ha anche preso parte alla realizzazione di vari progetti in Rojava. Ha anche preso parte a corridoi di aiuto umanitario nei Balcani, in Grecia, Tunisia, Cisgiordania-Palestina, Turchia, Kurdistan meridionale e Rojava.

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