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Opinioni e analisi

Tra paura e esuberanza: Politica estera ottomana della Turchia sotto il Presidente Erdogan

Se ai soldati turchi in Siria verrà torto anche un solo capello, »in tutto il Paese« ci saranno attacchi alle truppe del regime siriano, ha minacciato il Presidente turco Recep Tayyip Erdogan il 12 febbraio 2020 davanti ai deputati del suo partito di governo religioso-nazionalista AKP a Ankara. Nella provincia di Idlib, parzialmente controllata dalla propaggine siriana di Al-Qaida Haiat Tahrir Al-Sham (HTS), già in precedenza diversi soldati turchi erano stati uccisi in attacchi delle truppe governative siriane.

Ciò che suona come una dichiarazione di guerra al Paese vicino, in realtà è uno scontro in ritirata. I soldati di Ankara, senza appoggio aereo possono rallentare l’avanzata siriano-russa, ma non fermarla. Così la Turchia con il suo intervento a Idlib persegue l’obiettivo da un lato di proteggere le sue truppe ausiliarie jihadiste dalla distruzione completa, e dall’altro di garantirsi una posizione favorevole nella strutturazione di un ordine postbellico.

Perché i sogni neo-ottomani secondo i quali la Turchia nell’ambito della cosiddetta primavera araba potrebbe salire a una posizione di potenza dominante nel mondo arabo, per ora si sono dissolti nell’aria. Al Cairo i Fratelli Musulmani sono stati stati di nuovo cacciati, a Damasco il governo del Presidente Bashar Al-Assad, grazie all’intervento russo è riuscito a consolidare di nuovo il suo potere.

Riduzione del danno

Così per la Turchia oggi ormai si tratta solo di riduzione del danno. Si tratta di impedire che i curdi in Siria riescano a mantenere le loro strutture di autogoverno create soprattutto nell’ambito della lotta contro IS. Perché questo incoraggerebbe la popolazione curda in Turchia nella sua spinta verso l’autodeterminazione e – questa la paura irrazionale dei nazionalisti turchi – prima o poi potrebbe portare alla divisione della Turchia.

Per impedire un »corridoio del terrorismo« curdo lungo il confine, l’eserciti turco dal 2016 è più volte penetrato in Siria del nord. Al posto dei curdi scacciati, a Afrin, nella regione intorno a Jarabulus e Al-Bab a ovest dell’Eufrate, nonché in una striscia lunga 120 chilometri e profonda 30 chilometri a est dell’Eufrate occupata nell’ottobre scorso, sono stati insediati combattenti jihadisti e le loro famiglie. Mentre dichiara costantemente di rispettare l’integrità territoriale della Siria, in realtà viene praticata l’annessione di fatto delle zone occupate al territorio dello Stato turco.

In conformità con questo, le mappe delle emittenti filo-governative mostrano la Turchia nei confini del patto nazionale, quindi dello Stato al quale aspirava il movimento indipendentista degli anni ‘20 sotto Mustafa Kemal. Accanto al territorio dell’odierna Turchia, alla fine stabilito nel contratto di pace di Losanna del 1923, questi confini comprendono parti della Siria del nord, compresa Aleppo, nonché dell’Iraq del nord con Mossul, inoltre tutta la Tracia così come Batum, ossia l’Agiaria.

Ostinatamente perfino nei media turchi filo-governativi si mantiene la voce che il contratto di Losanna scadrebbe nel 2023 e che i confini dopo cento anni possano essere ridefiniti – a favore o a sfavore della Turchia. »Alcuni hanno cercato di ingannarci rappresentando il contratto di Losanna come una vittoria. Eppure a Losanna abbiamo ceduto isole che sono così vicine che si possono raggiungere a voce gridando in quella direzione«, aveva dichiarato Erdogan alle fine del 2016 in un discorso. Allo stesso tempo »in questo periodo grave, dato che ci sono tentativi di strutturare in modo nuovo il mondo e la nostra regione«, metteva in guardia dalla minaccia di una spartizione della Turchia che starebbe vivendo »la sua più grande battaglia dalla guerra di indipendenza«. Si tratterebbe di una lotta per una »nazione unita, una patria unita, uno Stato unito«.

Intanto non è più pensabile che Ankara possa occupare Aleppo – neanche con l’aiuto di truppe di mercenari islamisti. E anche in Iraq del nord le truppe di invasione turche sono incagliate nel territorio montuoso curdo, lontano dagli agognati campi petroliferi di Kirkuk.

Nuovo orientamento in politica estera

Intanto le ambizioni centrali di politica estera di Ankara si sono spostate nel Mediterraneo orientale e in Nord Africa. Espressione di questo nuovo orientamento è il contratto stipulato alla fine di novembre con il governo di unità nazionale di Fajes Al-Sarraj in Libia, su cooperazione e assistenza militare.

Retroscena del patto tuttavia, piuttosto che le esistenti affinità ideologiche con i Fratelli Musulmani libici, sono invece robusti interessi economici. Così Ankara vuole parte dei giganteschi giacimenti di gas nel Mediterraneo orientale. La Turchia si è così accordata con il governo di Tripoli, in spregio delle rivendicazioni greche e cipriote rispetto a una reciproca delimitazione dei loro zoccoli continentali nel Mediterraneo. Queste rivendicazioni negli ultimi anni hanno avuto un robusto sostegno anche grazie alla marina turca, armata anche grazie all’aiuto di imprese tedesche.

Non è tanto la propria forza, quanto lo sfruttamento delle contraddizioni delle potenze che a est e a ovest concorrono per il suo favore, a rendere possibile alla Turchia di ignorare, finora in larga misura senza conseguenze, il diritto internazionale in Siria, davanti a Cipro e in Libia. Così la Turchia, a fronte della sua dipendenza economica dall’UE e della sua partecipazione nella NATO, sfrutta la sua attuale alleanza con la Russia, tutt’altro che priva di contraddizioni, per l’ampliamento del suo margine in intervento in politica estera.

Allargamento della zona di scontro

Nonostante le sue invocazioni di una nuova lotta di indipendenza, Erdogan in questo non segue le orme di Mustafa Kemal Atatürk. Perché il padre della Turchia moderna condusse con pugno di ferro il consolidamento interno del nuovo ordine, ma rinunciò a avventure revanchiste in politica estera per non mettere in pericolo l’indipendenza conquistata. Erdogan invece, a fronte della sua posizione compromessa da crisi economica, successo elettorale dell’opposizione e segni di decadenza nel suo partito di governo, punta a un costante allargamento della zona di scontro. Tensioni in politica interna vanno deviate attraverso la valvola della mobilitazione nazionalista, rivolta sostanzialmente contro i curdi nel proprio Paese così come in quelli vicini.

Con questo Erdogan, che per consolidare le aspirazioni turche di grande potenza evoca il glorioso passato ottomano e militarmente si appoggia sempre di più su mercenari jihadisti, appare sempre di più come un ritornante del Ministro della Guerra dei Giovani Turchi Enver Pasha. Quest’ultimo aveva condotto l’Impero Ottomano in via di disfacimento nella Prima Guerra Mondiale, nella speranza di riconquistare, al fianco dell’imperialismo tedesco, parti perdute dell’Impero. Ai giovani turchi, sfruttando la situazione di guerra, quasi »riuscì« di sterminare gli armeni come presunto nemico interno in nome del mantra evocato anche da Erdogan di »nazione unita, patria unita, Stato unito«, ma la nuova ascesa come grande potenza fallì. Le smanie di grandezza di Enver suggellarono invece il destino del sfinito regno del sultano.

di Nick Brauns

da junge Welt

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