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Opinioni e analisi

Difendere la rivoluzione

L’approccio democratico confederale seguito dal movimento di liberazione curdo in tutte le parti del Kurdistan continua a essere combattuto sia dagli Stati internazionali sia da quelli regionali dello status quo. Un’analisi di Ali Çiçek.

Il Kurdistan è una colonia internazionale. Questa tesi si è inverata ancora una volta con l’inizio della guerra di aggressione del secondo più forte esercito della Nato alla Federazione Democratica Siria del Nord e dell’Est, il 9 ottobre 2019. Non sono solo gli Stati coloniali regionali come la Turchia, il regime siriano, il governo centrale iracheno o l’Iran, a voler mantenere lo status quo del Kurdistan. Anche attori internazionali come gli USA, la Russia e gli Stati europei hanno un interesse strategico a tenere il Kurdistan nello status di una colonia internazionale. L’approccio democratico-confederale seguito dal movimento di liberazione curdo in tutte le parti del Kurdistan con l’obiettivo di rimuovere lo status coloniale e di democratizzare il Medio Oriente, non va incontro a nessuno di questi Stati.

Lasoluzione tamildella questione curda

Arci-nemici storici come sono sopratutto la Turchia e l’Iran, o anche l’Iraq e la Siria, quando si tratta dello status del Kurdistan possono dimenticare tutti loro contrasti e seguire insieme una politica anti-curda. Uno sguardo alla cronologia degli incontri tra questi Stati e tra i loro rappresentanti dei servizi segreti nell’anno 2017 lo rende evidente.

Il 15 agosto 2017 il più alto comandante dell’Iran, Mohammad Bagheri, fece una visita di tre giorni in Turchia. Questa fu la prima visita di un generale iraniano dopo 38 anni. Bagheri si incontrò con il generale delle forze armate turche Hulusi Akar e il Presidente Tayyip Erdoğan. Nella dichiarazione ufficiale dopo l’incontro, si disse che nella visita di Bagheri erano stati trattati temi come la comune „lotta contro il terrorismo“ e il „referendum sull’indipendenza“ nel Kurdistan del sud del 25 settembre 2017. Il 2 ottobre 2017 poi Hulusi Akar si recò a Teheran. Anche il tema di questo incontro era la „sicurezza regionale e la lotta comune contro il terrorismo“. L’Iran in Medio Oriente sostiene gruppi sciiti, lo Stato turco invece gruppi sunniti-jihadisti. Nonostante queste profonde contraddizioni, le due parti sono concordi su chi siano i „terroristi“, ossia i curdi.

Il 4 ottobre 2017 Erdoğan si recò per una visita di un giorno a Teheran. Rispetto a questa visita dichiarò quanto segue: „Disponiamo di relazioni strette con l’Iran e in questo incontro parleremo della loro lotta contro il terrorismo, della presenza dei terroristi a Qendîl e di importanti temi regionali e bilaterali.“ Erdoğan nella vista in Iran era accompagnato dal capo dei servizi segreti turchi Hakan Fidan, e dai suoi collaboratori. Nell’ambito di questa visita, a Teheran si svolse un incontro estremamente importante. I capi dei servizi segreti di Turchia, Iran, Iraq e Siria si ritrovarono per un incontro segreto per discutere di una „posizione comune contro i curdi“. All’incontro presero parte dirigenti dei servizi segreti turchi Millî İstihbarat Teşkilâtı (MİT), Hakan Fidan, il consulente per la sicurezza nazionale dell’Iraq, Falih Feyyaz, il coordinatore dell’apparato di intelligence siriano, Ali Mamluk, e il capo dei servizi segreti iraniani.

Nell’incontro, a fronte del „pericolo“ che vedono nello status dei curdi in Kurdistan del sud e nelle conquiste curde in Rojava, fu raggiunto un accordo tra i quattro Stati per una politica comune di pressione sistematica sul Kurdistan del sud e il Rojava/Siria del nord e dell’est. I responsabili dei servizi segreti raggiunsero la decisione che per l’attuazione del piano dal Kurdistan del sud non si sarebbero verificati. Come ostacolo principale venne individuato il PKK. In questo senso sono state decise la distruzione del PKK, l’annientamento completo del Rojava, la rimozione dello status federale del Kurdistan del sud e l’annessione delle città curde al governo centrale iracheno. Ma in sostanza si trattava del fatto di imporre secondo il modello della „soluzione tamil“ in Sri Lanka, una soluzione militare contro il PKK.

In questo contesto svolgono gli attacchi contro la società curda e il movimento di liberazione curdo negli ultimi due anni si svolgono in conformità con questo piano. Gli sviluppi in Kurdistan dal settembre 2017, quando si delineava la fine dello Stato Islamico a Raqqa, confermano un simile piano comune.

Così il „referendum sull’indipendenza“ promosso il 25 settembre 2017 dal KDP del Kurdistan del sud, è stato dichiarato incostituzionale. I quattro Stati si sono schierati compatti contro il referendum. L’Iraq ha inviato il suo esercito nei territori contesi e la città di Kerkûk (Kirkuk) è stata occupata. La pressione sul Kurdistan del sud è stata aumentata tanto che si è arrivati a seri contrasti tra il KPD e il PUK, che però entrambi hanno inasprito ulteriormente la rispettiva politica contro il PKK.

Il 20 gennaio 2018 l’esercito turco ha iniziato una guerra di aggressione contro il cantone di Efrîn nel nord della Siria. Dopo una guerra durata due mesi, il catone alla fine è stato occupato e da allora di fatto annesso alla Turchia. Questa guerra di aggressione non è stata condannata né dagli Stati regionali né dagli attori internazionali. Anche il recente attacco al Rojava iniziato il 9 ottobre 2019, si svolge con il sostegno degli USA e della Russia.

Strategia degli omicidi mirati

Contro dirigenti del PKK la Turchia inoltre segue una strategia degli omicidi mirati. Questa fase è stata avviata con gli assassinii di Parigi nell’anno 2013 e continua fino a oggi in Kurdistan. Da ultimo, il 15 ottobre 2019 sono stati uccisi gli attivisti Demhat Agit (Seyitxan Ayaz) e Cemil Amed (Eser Irmak) con un attacco aereo mirato nelle immediate vicinanze della metropoli di Silêmanî in Kurdistan del sud. Il comitato per le relazioni con l‘estero dell’Unione delle Comunità del Kurdistan (KCK) in una dichiarazione fa notare omicidi simili di politici curdi e parla di un „piano dietro agli assassinii dei nostri amici“. A questo si aggiunge la decisione degli USA di mettere una taglia sulle tre personalità di spicco Duran Kalkan, Cemil Bayik e Murat Karayilan.

Il piano anti-curdo della Turchia, dell’Iran, dell’Iraq e della Siria continua anche attualmente. Continuano a svolgersi incontri di servizi segreti a alto livello. Il Presidente siriano il 20 maggio 2019 in proposito ha dichiarato a The Syrian Observer che una delegazione siriana si è incontrata con Hakan Fidan prima a Teheran, poi al confine nei pressi di Kassab. L’attacco al Rojava, il rafforzamento della presenza militare turca e la costruzione di basi militari in Kurdistan del sud, nonché il recente bombardamento di Şengal che non può avvenire senza approvazione da parte dell’Iraq e degli USA, sono tutti anelli di una catena collegati tra loro.

Il PKK come baluardo antifascista

L’attacco dell’esercito turco e delle sue milizie jihadiste al Rojava, come ovunque nel mondo, ha suscitato grande rabbia anche nella società del Kurdistan del sud. Le proteste di strada sono sboccate in una campagna di boicottaggio delle merci turche su ampia scala. Il Presidente del Consiglio dei Ministri della Regione Autonoma del Kurdistan, Neçirvan Barzani, per via delle pressioni a livello di politica interna è stato costretto a disdire la sua vista a Ankara predenemente annunciata. Anche la Turchia era sotto pressione e una dichiarazione dal campo curdo avrebbe dato sollievo al regime di Erdoğan. Neçirvan Barzani, quindi a margine dell’incontro del Core Group della conferenza di Monaco di Baviera sulla sicurezza, a Doha, la capitale del Qatar, si è incontrato con rappresentanti turchi. Al suo rientro Neçirvan Barzani ha rilasciato una dichiarazione che lo Stato turco si aspettava da lui: „All’inizio della crisi siriana il vero problema della Turchia in Siria non erano i curdi, ma il PKK. Purtroppo il PKK con l’aiuto dei curdi siriani ha voluto ottenere legittimazione. La catastrofe che ora i curdi subiscono lì, è un risultato di questa politica sbagliata.“ Erdoğan ha risposto al suo rientro dall’Ungheria l’8 novembre con le seguenti parole: „Immaginate, dall’Iraq ci sono state dichiarazioni rivolte contro di noi. Perfino dall’Iran ci sono state prese di posizione negative. Hanno dichiarato di non approvare la nostra operazione ‚Fonte di Pace‘. Ultimamente Neçirvan Barzani ha rilasciato una dichiarazione positiva, bella.“

La strategia comune degli Stati coloniali descritta più sopra, e il sostegno attivo da parte degli USA e della Russia, mostrano un carattere simile a quello di 20 anni fa con l’inizio del complotto internazionale. Ma la società curda con la lotta del movimento di liberazione curdo che dura da 40 anni si è svegliata e uno status per curdi all’interno del caos della regione, a lungo termine è irreversibile. Il PKK con la sua concezione del confederalismo democratico ha delineato un quadro chiaro di un Kurdistan libero, antistatale, caratterizzato dalla democrazia radicale, ecologico e basato sulla liberazione dei generi. Così anche la formula della seconda tappa del complotto internazionale che Erdoğan e Trump esplicitano apertamente è: „Sì alle conquiste nelle singole parti del Kurdistan, no al PKK.“

Lo sguardo verso il basso

La strategia dei potentati può essere intesa così. Ma quali possibilità hanno la società curda e il movimento di liberazione curdo? Gli Stati Nazione che si mettono d’accordo sulla distruzione delle conquiste democratiche a livello interno vivono essi stessi serie contraddizioni e conflitti. Anche se il governo turco cerca di soffocare sul nascere qualsiasi protesta della società civile, le elezioni comunali del 31 marzo e del 23 giugno hanno fatto apparire un quadro chiaro delle contraddizioni sociali della Turchia. Il potere politico del regime Baath siriano, dall’inizio della primavera araba è fortemente compromesso. Le attuali proteste di massa in Iraq minacciano di rovesciare il governo. E anche le proteste in Iran hanno costretto il Presidente Rohani a dichiarare che nel Paese si sta attraversando il periodo più difficile mai vissuto. I giovani, le donne e i popoli del Medio Oriente testimoniano la loro frustrazione e insoddisfazione rispetto al sistema politico dei propri Paesi.

E anche se gli USA e la Russia danno all’alleanza a quattro il via libera per la sua politica anti-curda, allo stesso tempo sono in concorrenza e in forti contraddizioni con questi Stati. Non è necessario spiegare ulteriormente la politica USA rispetto all’Iran e alla Siria in questa sede. E perfino Stati che appaiono strettamente alleati hanno grandi conflitti tra loro. Questo vale sia per le relazioni tra Russia, Iran e Siria, ma anche tra i due partner della NATO USA e Turchia.

I due fronti della resistenza del Rojava

Il movimento di liberazione curdo nelle ultime settimane dall’inizio della guerra di aggressione turca, insieme ai suoi alleati strategici, le forze democratiche globali, per diverse settimane ha dettato l’agenda internazionale. Non c’è quasi nessun attore politico che non si sia posizionato. Mentre movimenti di sinistra, ecologisti, femministi e antifascisti in tutto il mondo solidarizzano con la resistenza in Rojava, perfino gli Stati Nazione capitalisti sono stati costretti a pronunciarsi almeno a livello di dichiarazioni di intenti, contro la guerra di aggressione turca. Nessuno si permette di sostenere apertamente l’invasione. Perfino gli Stati che hanno reso possibile l’ingresso e che continuano a dare sostegno, non possono rivenderselo senza contraddizioni con la propria popolazione.

Nella prima tappa di questa fase di resistenza, a partire dal 9 ottobre 2019 si sono creati due fronti complementari. Da un lato le forze di difesa democratiche FDS, YPG e YPJ che hanno protetto i popoli della Siria del nord dall’ingresso turco e continuano a proteggerla. Dall’altro è l’opinione pubblica (dissidente), ovvero la società civile, che con le modalità più diverse porta la protesta nelle metropoli e crea pressione nelle strade e nelle piazze. È grazie a questi due attori che la resistenza in Siria del nord contro la guerra di aggressione turca si è „internazionalizzata“. La questione curda con questo è diventata una questione internazionale. Questo è un successo storico della resistenza, se si tiene presente che fino a pochi decenni fa, parole come „curdi“ e „Kurdistan“ erano ancora tabù.

Low Intensity Warfare“ in Kurdistan come concezione politico-militare della NATO

La fase che è iniziata con l’attacco al Rojava tuttavia non ancora è conclusa. Gli attacchi dello Stato turco e delle sue milizie jihadiste continuano senza sosta, così come anche la resistenza delle forze di autodifesa e delle società in Siria del nord. A questo punto è importante capire bene gli accordi sulla tregua tra gli USA e la Turchia del 17 ottobre e tra Mosca e Ankara del 23 ottobre. Da un lato questi accordi sono un prodotto della resistenza dei suddetti due fronti e hanno l’obiettivo di rompere la pressione dell’opinione pubblica (dissidente) e di scardinare la pressione a livello di politica interna nei rispettivi Paesi. Sia le forze di autodifesa in Rojava sia la società civile internazionale quindi sono soggetti politici, ossia attori in questa fase.

D’altro canto la guerra in Rojava in questo modo viene portata al livello di un „conflitto a bassa intensità“ (low intensity conflict. I „Low Intensity Conflicts” vengono definiti in questo modo: Low Intensity Conflict (LIC) è uno scontro politico-militare limitato per il raggiungimento di obiettivi politici, militari, sociali, economici o psicologici. Spesso è di lunga durata e va dalla pressione diplomatica, economica e psicologica fino al terrorismo e alle insurrezioni. Il LIC in generale è limitato a una determinata zona geografica e spesso è caratterizzato da contenimento dell’armamento, tattico e del livello di violenza. Il LIC contiene l’effettiva e ponderata applicazione di mezzi militari fino a un livello inferiore alla lotta tra forze armate regolari (da: Low-Intensity Conflict, FC 100-20, U.S. Army Command and General Staff College, Fort Leavenworth/Kansas; 1986). Il „Low Intensity Warfare“ è sbocciato negli USA degli anni ‘80 sotto il Presidente Ronald Reagan, quando il concetto è entrato nelle dottrine militari ufficiali. Si cercavano percorsi e mezzi per evitare in futuro un impegno tanto pesante in termini di perdite quanto la guerra in Vietnam. L’invio diretto di contingenti di truppe USA non era più desiderato. A differenza della guerra convenzionale, la „Low Intensity Warfare“ presenta due significativi „vantaggi“: i costi e il rischio politico sono nettamente inferiori. L’attenzione mediatica e il controllo democratico sono minimi. Complessivamente le strutture dei conflitti a bassa intensità ricevono poca attenzione dai media.

Questo vale anche per gli scontri bellici in Siria del nord. Mentre gli scontri sul campo di battaglia continuano senza sosta e le Forze Democratiche della Siria pubblicano bilanci di guerra quotidiani, il conflitto man mano inizia a scivolare fuori dall’agenda internazionale e diventa „normale“ come per esempio Iraq e Afghanistan. La „Low Intensity Warfare“ viene applicata nella lotta della NATO al PKK già da 30 anni contro la guerriglia delle HPG in Kurdistan del nord. Ora questa concezione politico-militare della NATO viene usata anche in Rojava per logorare il morale e minare dall’interno l’Amministrazione autonoma democratica. La risposta del Ministro degli Esteri Heiko Maas il 6 novembre 2019 all’interrogazione scritta della deputata della Linke Ulla Jelpke, che il governo federale non è conoscenza di un’offensiva turca, ma solo di singoli scontri in Siria del nord, lo conferma.

La guerra continua, anche la resistenza!

Per la difesa del Rojava quindi è importante riconoscere il piano complessivo per la distruzione del movimento di liberazione curdo e posizionarsi di conseguenza. Sono le persone in Kurdistan che difendono le loro conquiste sociali e con la loro lotta mobilitano la gente in tutto il mondo. Mostrano cosa può ottenere un’organizzazione, cosa significa non essere confrontati con problemi da soli, ma imparare a pensare e agire a livello sociale. Mostra a chi manifesta nelle metropoli che c’è ancora speranza e che il sistema non è ancora riuscito a distruggere tutto, che è possibile, necessario organizzarsi, e sopratutto questo da la forza per sviluppare percorsi di soluzione.

di ALI ÇIÇEK

Fonte: ANF

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