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Iraq

Al fronte

I peshmerga curdi combattono nel nord dell’Iraq contro le bande assassine di “Stato Islamico”. Ospite dell’Unione Patriottica del Kurdistan.Peter Schaber è redattore del medium online della sinistra radicale Lower Class Magazine (lowerclassmag.com). Abbiamo già pubblicato una sua intervista con Bese Hozat, la co-presidente del Consiglio Esecutivo dell’Unione delle Comunità del Kurdistan (KCK).

Da checkpoint a checkpoint la sensazione sgradevole diventa più forte. Il fumo pesante e pungente delle innumerevoli raffinerie penetra nel naso, ben visibili bruciano i fuochi degli impianti di estrazione: siamo nella metropoli petrolifera di Kirkuk. Circa un quinto dell’estrazione di petrolio irakena avviene qui. Dopo che nel 2014 lo »Stato Islamico« (IS) aveva conquistato Mossul ed era in procinto di proseguire per Kirkuk, l’esercito irakeno ha rinunciato al controllo sulla città. Truppe dei peshmerga, le forze combattenti della Regione Autonoma del Kurdistan, hanno preso in carico il posto che per loro riveste anche un grande significato simbolico. Lo hanno difeso con maggiore successo di quanto avrebbe potuto fare l’esercito irakeno – sulla cui forza da queste parti non si conta molto. E così Kirkuk oggi si trova saldamente in mani curde.

Il fronte di Kirkuk, verso il quale andiamo con il mio collega Willi Effenberger, ormai dista già circa 15 chilometri dalla città, nella metropoli petrolifera stessa la vita si è in larga parte normalizzata. Le bade assassine di IS sono state respinte, oltre la linea di difesa alla quale ci porta il comandante peshmerga Jafer Aziz Haji su un pick-up modificato. Tre combattenti della sua unità vengono con noi per sicurezza. Daesh, come vengono chiamate con disprezzo in arabo le milizie del terrore, al momento è sulla difensiva, ma non si sa mai. »Avete paura?« chiede uno dei giovani soldati. »Paura no. Ma certamente è inconsueto.« Ride.

Per i peshmerga la vita al fronte è quotidianità. Alcuni di loro arrivano con la propria macchina alle postazioni, proprio come da noi si va in ufficio. Ma già il percorso per arrivarci documenta le crudeli battaglie che qui si sono condotte. A dieci chilometri da Kirkuk attraversiamo un ponte che passa su in piccolo fiume largo forse dieci metri. »Prima eravamo qui «, dice Jafer Aziz Haji e indica il lato dal quale veniamo. È assicurato da lastre di cemento. »E dall’altra parte c’era Daesh.«

Quando poi la milizia del terrore ha iniziato a prendere di mira Kirkuk la zona è stata riconquistata »ne abbiamo fatti fuori 600«, dice il comandante non senza orgoglio. »Li abbiamo spinti avanti. Correvano, combattevano, correvano. Noi non siamo arretrati, andavamo solo avanti.« Anche circa cento peshmerga hanno perso la vita nell’operazione. »Il fiume era rosso di sangue.« Ci sono ancora cadaveri nell’acqua, ci dice più tardi il nostro interprete Hussen. Per questo i pesci non si possono mangiare.

Aspettare e vigilare

Dal fiume ci sono ancora cinque minuti su strade sconnesse a dividerci dalla linea del fronte. Lì i combattenti curdi, in piccole postazioni in ciascuna delle quali prestano servizio circa 15 uomini e che sono collegate tra loro da banchine, difendono il territorio della regione autonoma curda nel nord dell’Iraq dall’infuriare dello »Stato Islamico«.

I peshmerga ci salutano molto amichevolmente. Le visite qui sono rare, ancor di più dalla Germania e un po’ di cambiamento fa piacere. Al momento la battaglia qui consiste soprattutto in attesa e vigilanza. E ciononostante ogni distrazione potrebbe essere mortale.

Inizialmente ancora timidi, ma presto in modo del tutto naturale infiliamo le teste nei buchi fatti per sparare tra i sacchi di sabbia ammucchiati. O le sporgiamo oltre i muri delle piccole fortezze perché il nostro ospite ci possa mostrare dove si trova in nemico. »Lì«, dice, mentre punta il dito verso l’orizzonte, »lì ci sono ancora diversi miliziani di Daesh«. Si vedono poche case, a tratti alberi, in mezzo ampi paesaggi fatti di prati. »A volte la notte strisciano nell’erba e di colpo sono davanti alla postazione«, dice un combattente. Allora gli si spara. Dai campi intorno alle piccole fortezze sale fumo. »Li dobbiamo bruciare per vedere meglio.«

Più volte anche qui sentiamo quale strano comportamento mostrano gli jihadisti di »Stato Islamico«. »Sono completamente adrenalinici. Come pazzi.« In piccoli gruppi, a volte perfino da soli, partono per azioni militari folli. Quando vengono colpiti o scoperti innescano le cinture esplosive che portano. Già diverse ore prima del nostro arrivo nella base die peshmerga avevamo visto le vetture sequestrate della milizia del terrore: camion rinforzati con lastre di metallo, imbottiti di esplosivo. Sembrano un po’ usciti dal film »Mad Max«.

In una fortificazione curda possiamo vedere da vicino le conseguenze della strategia jihadista. Per terra davanti al riparo c’è una buca. A due metri di distanza, su uno dei muri sul percorso verso la postazione c’è puzza di putrefazione. »Quella è carne«, dice uno dei nostri accompagnatori e indica brandelli rosso cupo sul muro. Alcune settimane fa proprio qui un miliziano di Daesh si è fatto saltare in aria. »Ha strisciato fino qui attraverso l’erba, si voleva avvicinare. Ma è stato scoperto e abbiamo aperto il fuoco. Poi ha innescato la carica esplosiva e si è fatto saltare«, racconta uno dei peshmerga di guardia. Il sole ha fissato nel muro i resti dell’attentatore suicida.

I peshmerga ci mostrano foto: qui un piede, qui l’altro, in qualche modo surreale. Della persona che qui si è tolta la vita per ucciderne altre, non è rimasto quasi nulla. »Li seppelliamo«, dice Jafer Aziz Haji. »Non li lasciamo in pasto ai cani. Tanto non possono più fare danni e noi vogliamo comportarci in modo decente.«

“La Turchia sostiene IS”

Generalmente non sono guerrieri consumati dall’odio quelli che si incontrano nelle postazioni curde. E anche se certamente sanno il fatto loro, non sono soldati professionisti per i quali combattere e uccidere sono diventati fine a se stessi. »Noi curdi combattiamo per la nostra terra. Non attacchiamo gli altri e non cerchiamo di togliere a qualcuno la sua terra«, ci spiega poi l’ufficiale in comando di questa sezione del fronte, Talb Sadq Mohammed.

I peshmerga – almeno quelli che incontriamo noi e che in maggioranza fanno parte dell’Unione Patriottica del Kurdistan (PUK)– sembrano molto alla mano e vicini al popolo. Quando attraversiamo i villaggi, gli abitanti salutano, tutti sembrano conoscere tutti. »Per noi qui non è importante come uno si veste o chi sia chi. Per noi è importante come serve il suo paese e la sua libertà«, ci dice il generale che ci sta davanti con una tuta da jogging grigia.

Nei ripari e nei bunker della linea del fronte si offrono continuamente tè e acqua in bicchieri di plastica, perché le temperature si avvicinano alla linea dei 50 gradi. I combattenti rispondono volentieri alla richiesta di fotografie, prontamente posano con noi con i loro fucili. Un »Milan«, la moderna arma anticarro, fornita dalla Germania, si trova in questa zona del fronte. »Ma sei postazioni devono dividersene uno. Quando Daesh arriva con diversi veicoli contemporaneamente, è troppo poco.« La prossima volta che veniamo ne rubiamo uno e ve lo portiamo, diciamo noi. Ci ringraziano – e noi speriamo che l’annuncio sia stato accolto come uno scherzo.

Il loro equipaggiamento carente i peshmerga lo vivono come un problema. »Guardate le nostre armi«, ci esorta Jafer Aziz Haji e indica una mitragliatrice vecchia e arrugginita. »Kalashnikov, cannocchiali – l’arma più efficace che hanno questi ragazzi è un RPG«. È un lanciagranate anticarro azionabile a mano. Effettivamente: visitiamo sei postazioni, carri armati, artiglieria, armi moderne ne troviamo appena. Alcuni soldati ci presentano un fucile di precisione che si sono costruiti da sé. »E Daesh? Quelli hanno l’equipaggiamento più moderno.« Da cosa dipende, chiediamo di sapere e se il nostro comandante sia dell’avviso che »Stato Islamico« riceva sostengo dall’estero. »Certamente. In primo luogo dalla Turchia, ma anche dall’Arabia Saudita e del governo siriano«. È palese. »Si è visto come i miliziani di Daesh sono passati dal confine turco-siriano.«

In effetti ci sono stati e ci sono numerosi indizi per il fatto che la Turchia, almeno in alcune fasi, ha appoggiato attivamente IS. In altre lo ha lasciato fare, quando si trattava del nemico principale di Ankara: il nuovo progetto democratico delle curde e dei curdi in costruzione nel nord della Siria che loro chiamano Rojava.

Curdi contro curdi

Nel Rojava dominano due forze politiche: il Partito dell’Unione Democratica (PYD) e le Unità di Difesa del Popolo YPG. Entrambe sono vicine al movimento di liberazione intorno al Partito die Lavoratori del Kurdistan (PKK) e condividono l’obiettivo di una costruzione »dal basso« di democrazia e autonomia oltre i confini nazionali che nel Vicino Oriente sono comunque tracciati in modo arbitrario.

Questo a sua volta spesso porta a conflitti con la frazione politica determinante nella regione autonoma irakena dei curdi: il Partito Democratico del Kurdistan (DPK) sotto Masud Barzani. Barzani ha relazioni con l’occidente e con la Turchia. Anche nell’Iraq settentrionale spesso si sente il rimprovero che lui fa politica più per mantenere il suo potere che nell’interesse della popolazione. Il capotribù inoltre è in rapporti piuttosto ostili con il PKK e tutti coloro che ne condividono l’orientamento politico. Ne fanno parte molte organizzazioni curde: dal Partito Democratico dei Popoli (HDP) in Turchia, fino al PYD e alle YPG in Siria.

Quest’ultima Barzani attualmente cerca di combatterla attraverso una misura che perfino nella regione autonoma nel nord dell’Iraq che lui – senza legittimazione democratica – presiede in qualità di Presidente, incontra scarso favore: ha fatto chiudere il confine tra il Kurdistan irakeno e il Rojava. A seguito di questo né aiuti per la città di Kobane distrutta da »Stato Islamico« né sostenitori della causa curda arrivano dove servono.

La politica di Barzani ha due cause, spiega una rappresentante dell‘HDP a Erbil distante circa cento chilometri da Kirkuk, la sede del governo della Regione Autonoma del Kurdistan in Iraq, a jW: »Soprattutto dagli USA e dalla Turchia arriva un’enorme pressione sul governo del Kurdistan meridionale, cosa che è stata determinante per la chiusura della frontiera. Ma dall’altra parte il DPK non vuole neanche che nel Rojava o da qualche altra parte un’altra forza curda acquisti forza. È così: appena qualcuno arriva al potere non lo vuole più perdere«, dice Silan Eminoglu. In effetti, così la politica di sinistra, non ha niente contro Barzani come persona. »Ma quando come leader curdo stringe la mano di Erdogan che ancora gronda del sangue dei curdi, allora anche la mano di Barzani è insanguinata. Questo come curda non posso sopportarlo.«

“È infamante”

Ma la chiusura del confine non viene rifiutata solo dalla sinistra curda. Anche l’Unione Patriottica del Kurdistan, i cui peshmerga abbiamo potuto accompagnare al fronte, si pronuncia in modo chiaro contro la misura. Sadi Pire, che è il rappresentante responsabile per le relazioni internazionali del PUK, usa parole chiare: »Non è il governo che chiude il confine. È un conflitto tra il partito del Presidente Barzani e il PYD.« Barzani anche nelle elezioni in Turchia si è schierato dalla parte di Erdogan contro l’HDP curdo e per questo viene »odiato nel Rojava, anche in Turchia«. Il suo partito è un’impresa famigliare. E questa impresa famigliare anche qui non è molto amata.«

Alla domanda se il PUK si sia schierato contro la chiusura del confine, la componente di lungo corso dell’ufficio politico risponde: »Si, completamente. È infamante. Per quale motivo anche se abbiamo centinaia di migliaia di profughi dal Rojava che vanno e vengono, dovremmo chiudere il confine? Prima o poi lui« – si riferisce a Barzani – »dovrà aprire.« Quando? »Vorrei che fosse stato ieri.«

Diversamente da Masud Barzani e dal suo partito, Sadi Pire non da al PKK la colpa maggiore per la guerra nel sudest della Turchia. »Penso che molte forze in Turchia non hanno ritenuto pensabile che l‘HDP nelle elezioni del 7 giugno 2015 superasse la soglia del dieci percento. Anche a me si è avvicinato qualcuno dai servizi segreti turchi con la domanda se ce l’avrebbe fatta. All’epoca ho detto che si. Non mi ha creduto.« Erdogan è »un cattivo perdente« e non ha potuto accettare che il suo calcolo per la trasformazione del sistema parlamentare in un sistema presidenziale non sia riuscito. L’escalation è iniziata così.

Ma Pire critica anche il PKK: Con »qualche poliziotto e soldato morti« in un Paese NATO non si ottiene niente. Bisogna tornare ai colloqui: »Non c’è alternativa alle trattative intorno a una tavola rotonda.« Pire spera che Ankara presto dovrà cedere. »Si può almeno dire che la Turchia è sotto pressione. La Comunità Internazionale registra le violazioni di diritti umani, la riduzione delle conquiste democratiche.«

Unità nelle trincee

A Kirkuk un altro funzionario del PUK, Aso Mamand, commenta in modo simile a Sadi Pire la chiusura del confine da parte di Barzani: »Nel caso della città di Shengal (arabo: Sinjar, jW) si può dire che i peshmerga hanno la colpa di quello che è successo lì. Poi sono arrivate le YPG per aiutare. Hanno combattuto duramente con Daesh.« La chiusura del confine già solo per questo appoggio da parte dei combattenti del Rojava è sbagliato. »Normalmente dovremmo essere disponibili e non chiudere il confine.«

Shengal – l’area di insediamento della minoranza religiosa yezida – nel 2014 è diventato scenario di un tentato genocidio da parte di »Stato Islamico«. Quando questo avanzava i peshmerga si ritirarono e abbandonarono gli yezidi al loro destino. Molte migliaia di persone fuggirono o si trovavano intrappolati sulle montagne di Shengal. Alla fine sono state le YPG e il braccio militare del PKK, le Forze di Difesa del Popolo HPG, che hanno combattuto aprendo un corridoio.

Anche sulle linea del fronte i soldati parlano con rispetto della guerriglia. »Vengono quando c’è un combattimento. Quando c’è calma se ne rivanno, forse tornano sulle montagne. Ma quando succede qualcosa, di loro ci si può fidare.« E il comandante Jaffar Aziz Aji sottolinea: »Qui nelle trincee non ci sono differenze. Certo, quando si tratta di politica, DPK, PUK e PKK hanno idee completamente diverse. Ma quando siamo qui a combattere non c’è differenza. Combattiamo contro un nemico comune.« Nonostante le aspirazioni di Barzani di nuocere al PKK, questa unità delle forze curde contro Daesh nelle trincee è significativa.

Almeno per quanto riguarda due punti – nonostante tutte le differenze e i modelli di società rispettivamente perseguiti – c’è una relativa vicinanza tra i curdi nell’Iraq settentrionale e le organizzazioni vicine al PKK in altre parti del Kurdistan: come curdi oltre le linee di confine condividono una storia comune di persecuzione che è profondamente radicata nella memoria della società. E anche oltre i confini dei partiti sono del parere che differenze etniche e religiose non sono un ostacolo per una convivenza pacifica: »La religione è secondaria. Qui non ci si chiede chi sia cristiano, chi musulmano. È secondario «, dice Sadi Pire. »Il regime a Baghdad ha oppresso questa popolazione indipendentemente dalla sua appartenenza religiosa.« Già questa tolleranza abbastanza ovvia è un bene importante in una regione dove ci sono forze reazionarie e fondamentaliste come Daesh, Al-Qaeda o il partito di governo turco AKP.

Se vuole scamparla in tempi nei quali in Medio Oriente vengono continuamente aperte nuove ferite, alla anche la popolazione della zona autonoma curda nel nord dell’Iraq dovrà cercarsi alleati. E né l’occidente né Recep Tayyip Erdogan hanno fama di essere amici di movimenti che vogliono indipendenza, democrazia e libertà.

“Operazione a cervello aperto “

Per ottenere un sostegno più ampio dei movimenti curdi nel sudest della Turchia e nel nord della Siria dalla regione autonoma nel nord dell‘Iraq, dovrebbe prima essere messa fine alla faida che serve al mantenimento del potere di Barzani. Questo, in particolare in tempi in cui »Stato Islamico« è alle porte, sembra difficilmente realizzabile. Tuttavia Barzani viene comunque criticato da ampie parti della popolazione. La crisi economica nella regione autonoma curda mette in difficoltà molte famiglie, il clan del Presidente ha la fama di lavorare in primo luogo per riempire le proprie tasche. Un conflitto politico maggiore viene impedito unicamente dal fatto che le curde e i curdi, la cui storia è piena di scontri al proprio interno, è così presente che non vogliono vivere di nuovo qualcosa del genere.

L’equilibrio tra le diverse forze curde qui è un bene importante. »Abbiamo avuto diverse tornate di guerra civile e ogni paio di anni preso posizione gli uni contro gli altri. In questo modo abbiamo solo distrutto il nostro Paese «, si ricorda Sadi Pire. In modo simile si pronuncia anche il generale peshmerga Talb Sadq Mohammed: »Non possiamo costringere il DPK insieme al PKK. Tutto quello che si fa in questa regione è come un’operazione a cervello aperto. Ogni piccolo sbagli ha conseguenze immense.«

di Peter Schaber, Kirkuk/Erbil

27 maggio 2016

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