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Kurdistan

Tra ISIS e guerra, la speranza è curda

Abbiamo intervistato Yilmaz Orkan, membro del KNK (Consiglio nazionale del Kurdistan), per parlare di ISIS (“un fascismo del terzo millennio”), pace (“una bella parola”, ma molto lontana), confederalismo democratico (“un progetto per tutti i popoli del Medio Oriente”). Nelle tenebre del fondamentalismo e della guerra, la questione curda sembra oggi l’unica luce. Con riflessi globali su alcune delle principali problematiche del presente.

G: I curdi sono musulmani e stanno combattendo l’ISIS sul campo. Cosa pensi di chi parla di scontro di civiltà, dell’idea che gli attentati di Parigi sarebbero parte di una guerra tra “mondo islamico” e “mondo occidentale”?

Y: Non si tratta di una guerra religiosa tra l’Islam e le altre fedi. Il fondamentalismo in Medio Oriente non è nato oggi, ma è stato creato decine di anni fa, nel periodo della Guerra Fredda. In quel periodo gli americani e la NATO hanno contribuito alla nascita del salafismo, dell’estremismo islamico, per evitare che il comunismo entrasse in Turchia, in Iran e nel mondo islamico. Per bloccarlo. Quando si è sciolta l’Unione Sovietica i fondamentalisti erano già là e hanno iniziato a combattere quasi subito per prendersi alcuni paesi. Prima hanno cominciato i talebani, poi Al Qaeda. Adesso ci sono lo Stato Islamico e tanti altri gruppi, come Al Nusra. Cambia il nome, ma l’idea resta la stessa: il fondamentalismo islamico, che possiamo chiamare anche jiahdismo o salafismo. Oggi questo è un grande problema per il Medio Oriente. Gli estremisti non attaccano soltanto gli occidentali, i cristiani o i fedeli di altre religioni, come gli yazidi. Attaccano anche gli altri musulmani. Per esempio, se ricordiamo la vicenda di Kobane, il 95% delle persone che vivevano in città erano musulmani, musulmani sunniti. Ma il Califfato Islamico ha attaccato Kobane. Solo dopo 134 giorni di resistenza le YPG/YPJ sono riuscite a liberare la città. E adesso Kobane è libera grazie a quella resistenza. Comunque il progetto del califfato rimane quello di attaccare anche dove vivono i musulmani e di organizzarsi in quei paesi. Una parte dei jihadisti internazionali che sono andati a combattere in Siria e in Iraq dai paesi occidentali, dall’Europa, dall’America, dall’Australia, dal Nord Africa, dal Caucaso, dall’Afghanistan, dal Pakistan adesso sta tornando a casa. Con gli attentati terroristici vogliono fermare alcuni dei paesi che stanno lottando contro il califfato. Quello che è successo a Parigi serve a mandare il messaggio alla Francia che non deve combattere il jiahdismo. I fatti successi ad Ankara (contro il partito curdo dell’HDP durante la sua manifestazione per la pace), a Suruç (al centro Amara), a Diyarbakır (al comizio HDP) sono la stessa cosa: attentati contro chi combatte il Califfato Islamico in prima linea, cioé i curdi. Ma sappiamo anche che c’è una coalizione di quasi 38 paesi che sta bombardando l’ISIS. Il Califfato Islamico spera di fermarne qualcuno attraverso gli attentati terroristici. La stessa cosa è successa con l’attacco all’aereo russo, perché anche la Russia bombarda l’ISIS. Se andiamo a vedere quello che sta accadendo in Siria e in Iraq, ci rendiamo contro che il Califfato Islamico è una forma di fascismo del terzo millennio. Loro non sono contro i cristiani o contro gli occidentali, sono contro tutti quelli che non li accettano. Quando hanno attaccato per la prima volta in Iraq, a Mosul e poi a Ninova, Sinjar, Tal Afar e dopo ancora a Kobane, in Siria, avevano il programma ben preciso di fare piazza pulita di tutta la popolazione che non accettava di sottomettersi a loro. Cacciando via o uccidendo chiunque non li volesse. Da giugno 2014 ad ora l’ISIS ha ucciso almeno 20.000 curdi, tra Siria e Iraq. E questa cifra riguarda solo i curdi. Poi hanno ucciso arabi, turkmeni, assiri, singoli occidentali, come giornalisti. Nei territori in cui hanno attaccato hanno fatto tutto questo. Adesso stanno provando a diventare una forza globale, facendo attentati in Libano, in Tunisia e anche in Francia. Questa cosa è molto pericolosa per tutta l’umanità, perché loro non obbediscono ad alcun principio, nemmeno alle regole di guerra. Al contrario, il loro metodo è attaccare tutti. Per esempio, tu sei un civile, non sai niente, non c’entri niente, ma vieni colpito da un attentato in cui muore tantissima gente. Come a Parigi, ad Ankara… Adesso davanti a noi c’è questa forza pericolosa e fascista, che capisce solo la lingua della guerra, la lingua militare. Per questo, purtroppo per loro, con i membri dello Stato Islamico non è possibile alcuna soluzione politica. Ciò non toglie che per eliminarli davvero, sia ideologicamente che fisicamente, serve un grande un grande progetto politico per Siria, Iraq e in generale per il Medio Oriente.

G: Pochi giorni fa la Turchia ha abbattuto un aereo russo. L’intervento di Putin in Siria, contro l’ISIS ma accanto ad Assad, rende ancora più complesso il quadro del conflitto siriano. Cosa pensano le forze curde di questo intervento militare.

Y: Da anni noi curdi diciamo che la Turchia appoggia l’ISIS, Al Nusra e gli altri fondamentalisti islamici. La Turchia ha attaccato l’aereo russo perché la Russia adesso è molto attiva in Siria e sta bombardando i jihadisti dell’ISIS, di Al Nusra e di altri gruppi di estremisti islamici che la Turchia stessa ha creato e che sono composti da cittadini turchi. Come Sultan Murat, Fetih Tugaylari (Brigate di Fetih) o Sham el Ahrar. Questi sono gruppi che i turchi hanno creato contro Bashar Al-Assad, ma sono jiahdisti, sono la stessa cosa dell’ISIS. La Russia è intervenuta in Siria da quasi un mese, con gli aerei e i militari, contro tutti i jihadisti. La Turchia questo non lo voleva, perché ha un altro programma per la Siria. Voleva solo cambiare la famiglia di Assad e la setta degli aleviti con qualcun altro, con qualche sunnita in grado di portare il sistema dei Fratelli Musulmani – come in Egitto, come in Tunisia durante il primo governo successivo a Ben Alì, o come anche in Turchia, dove Erdogan e l’AKP sono parte dei Fratelli Musulmani. Per queste ragioni adesso in Siria c’è una terza guerra mondiale. Tutte le potenze sono lì, ognuna con il suo programma. L’abbattimento del caccia russo è parte di questa guerra.

G: Di fronte alla possibilità di un coinvolgimento ancora maggiore delle potenze occidentali nel conflitto mediorientale, i movimenti si stanno interrogando di nuovo sulla questione del pacifismo. Il quadro, però, è molto diverso da quello post-11 settembre. Lì si trattava di opporsi alle bombe americane, mentre oggi, come dicevi anche tu, la situazione è molto più complessa. Secondo te in questo momento cosa significa chiedere la pace in Siria e cosa è necessario per ottenerla?

Y: Come parola “pace” è molto bella, va bene. Ma arrivare alla pace in Siria è molto difficile. Perché penso che senza eliminare i jiahdisti, i salafiti, non è possibile creare la pace in Siria. E non è solo questo. Per prima cosa paesi come Turchia, Arabia Saudita, Qatar devono smettere di appoggiare i jiahdisti, quelli dell’ISIS e tutti gli altri. Soltanto dopo questo, sarà possibile fermare i jihadisti e costruire un progetto politico di pace per tutta la popolazione che vive in Siria. Ma senza questo passaggio è impossibile parlare di pace in Siria.

G: Da molto tempo, lo scontro in Turchia tra Erdogan e il movimento curdo non è uno scontro etnico, ma uno scontro politico intorno al livello di democrazia dello stato turco. L’Europa sta sostenendo il progetto autoritario di Erdogan politicamente ed economicamente, attraverso i finanziamenti per il contrasto dei flussi di rifugiati, assegnandogli un ruolo chiave nelle politiche migratorie comunitarie, rimanendo in silenzio davanti al massacro del popolo curdo. I governi europei presentano questo appoggio come inevitabile nel breve periodo, proprio per la questione dei flussi migratori e per la guerra in Siria. Quanto è pericoloso, soprattutto in un’ottica di medio termine, uno stato autoritario turco per tutta l’area mediorientale?

Y: Conosciamo la politica della Comunità Europa prima e dell’Unione Europea poi. La UE non ha mai messo in campo un progetto per risolvere i problemi del Medio Oriente. Ha sempre fatto una politica a breve termine, per periodi transitori, affinché i problemi non arrivassero in Europa. Questa politica transitoria ha fatto aumentare tutti questi problemi. Se l’Unione Europea avesse voluto risolvere la questione curda all’inizio, non saremmo mai arrivati a questo punto. Avremmo potuto risolvere tutto più di dieci anni fa. Invece, i “grandi paesi” dell’Unione Europea hanno continuato a vendere armi alla Turchia, a fare una politica grigia, ambigua, per non scontentare la Turchia. Dall’altro lato, il discorso sui diritti e la democrazia è rimasto soltanto teorico. I curdi non chiedono il separatismo, non chiedono di creare un loro stato, ma vogliono l’autonomia democratica, anche in Turchia e per la Turchia. Che vuol dire questo? Vuol dire che vogliono l’autogoverno della loro regione, delle loro città, dei quartieri, dei villaggi, delle risorse, che vogliono poter parlare e studiare nella lingua madre. Su queste richieste l’Unione Europea avrebbe potuto fare un progetto chiaro, senza doppi giochi. Anche perché tutte queste cose – come la sussidiarietà, la democrazia negli enti locali, la tutela delle lingue – sono già previste come diritti in tutti i paesi membri del Consiglio d’Europa. Avrebbe potuto aiutare su queste cose, ma non l’ha fatto mai. Quello che fa adesso è semplicemente continuare con la stessa politica, evitando di avanzare richieste più forti verso la Turchia per vincolarla a garantire questi diritti e risolvere le diverse questioni. Quindi quello che succede adesso è che il popolo curdo è coinvolto in un conflitto enorme sia in Rojava (Siria), che in Turchia, che in Iraq. Ed è proprio contro lo stato turco e l’AKP che il conflitto è più duro. In tutto il Medio Oriente ci sono oggi due forze che si scontrano: quella progressista, che è rappresentata dai curdi, e quella conservatrice e fondamentalista, legata all’oligarchia turca, o al regime iraniano, o al dittatore Assad, o ai salafiti, allo Stato Islamico o ad altri gruppi jihadisti.

G: E proprio su questo punto ti vorrei porre l’ultima domanda. Dicevamo anche prima che i nomi dei gruppi terroristi cambiano, ma il fenomeno del terrorismo resta. Ed è un fenomeno di carattere storico che dalle guerre, dalle dittature, dalle ingiustizie sociali trae linfa e tende a moltiplicarsi. Oggi il Medio Oriente, che si trova in una situazione di guerra così estesa e crudele, sta diventando un incubatore di nuovi grupi terroristici. In questo quadro disastroso, l’unico progetto che parla di pace e di democrazia, che guarda oltre gli stati nazionali e le identità religiose, è quello che viene dal movimento curdo e che si pone come un possibile vettore di pace e democrazia per tutti i popoli del Medio Oriente. Perché la questione curda può costituire la chiave di volta di tutto il quadrante mediorientale e cosa è necessario fare per sostenere il vostro progetto?

Y: Dopo tanti anni di lotta nelle quattro parti del Kurdistan, abbiamo capito che in Medio Oriente ci sono diversi popoli che vivono insieme e che non è possibile risolvere il problema con nazionalismo, jiahdismo o salafismo. Né l’estremismo etnico, né quello religioso possono risolvere la questione mediorientale. Il conflitto continua. Allora, cosa bisogna fare per risolvere il problema mediorientale e soprattutto quello curdo, che è oggi uno dei più importante di tutto il Medio Oriente perché riguarda quattro paesi diversi? Sappiamo che in Medio Oriente i popoli più grandi sono cinque: arabi, ebrei, turchi, persiani e curdi. Tutti gli altri popoli hanno stati nazionali creati tanti anni fa. Nel XX secolo pensavamo che l’autodeterminazione avesse una sola forma: l’indipendenza nazionale e lo stato nazione. Al contrario, nel XXI secolo abbiamo capito che l’indipendentismo e la rivendicazione di nuovi stati è una trappola per i popoli del Medio Oriente. Per questo motivo non pensiamo sia utile utilizzare ancora dei discorsi nazionalisti. Al contrario, lavoriamo sulla prospettiva dell’autonomia democratica per tutte e quattro le parti del Kurdistan. Su un progetto che può riguardare i curdi e tutti i popoli del Medio Oriente: il confederalismo democratico. Cosa vuol dire questo? Significa che non vogliamo più il separatismo, non vogliamo più dividere, ma al contrario vogliamo realizzare un progetto di convivenza tra tutti i popoli e i gruppi sociali. Un progetto di rispetto reciproco tra differenze etniche e religiose, in cui c’è spazio per tutti, per le donne, per i giovani, per le persone LGBT. Questo è un progetto di convivenza, di uguaglianza, di democrazia e di libertà che riguarda tutti e che vuole fare in modo che i diversi popoli e i diversi gruppi sociali possano autogovernare la terra e i paesi. Il progetto che chiamiamo confederalismo democratico è quindi un progetto che parla principalmente di convivenza. Pensiamo che oggi solo questo progetto possa garantire un futuro di pace e fratellanza a tutto il Medio Oriente. Altrimenti ognuno continuerà a chiedere un nuovo paese, un nuovo stato, un nuovo califfato, o a propagandare un nuovo nazionalismo o un nuovo estremismo religioso. E questo può solo peggiorare le cose, come sta facendo l’ISIS che ha creato un califfato di sunniti in cui tutti i diversi popoli, le diverse fedi devono vivere come dicono loro. E questo non è possibile. Il nostro progetto è un progetto moderno, democratico, realizzabile. In Medio Oriente diversi popoli hanno vissuto insieme per migliaia di anni. È necessario diffondere la fratellanza e il rispetto, perché se un popolo non ne rispetta un altro, diventa impossibile vivere insieme, in pace e in democrazia. Pensiamo che il progetto del confederalismo democratico sia una soluzione a tutti questi problemi.

Dinamopress

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