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Rassegna Stampa

Turchia, se la caserma uccide più della guerra

[divider]13 Marzo 2013 [/divider] I dati dicono che il numero dei militari morti suicidi è più alto di quelli che hanno perdono la vita sul campo di battaglia. Indossare la divisa può dunque rivelarsi molto pericoloso, e i rischi aumentano se il soldato è curdo, ma l’alternativa è il carcere.

La lunga conta dei suicidi

Secondo il conteggio tenuto dal sito dell’associazione Asker Haklari (diritti dei soldati), il numero dei coscritti morti suicidi in questo inizio 2013 è pari a 13, sei nel solo mese di gennaio.

Si tratta di dati allarmanti che confermano una tendenza in atto da anni, in un paese in cui l’esercito è un’istituzione da rispettare e celebrare, e l’obiezione di coscienza viene considerata come un crimine penalmente perseguibile.

Se però l’intoccabilità dei militari inizia ad essere messa in discussione, anche dai vertici dello Stato, allora è possibile che il velo d’omertà si levi e la realtà di ciò che avviene tra le mura delle caserme venga a galla.

A fare chiarezza, un rapporto dello scorso ottobre dell’associazione Asker Haklari, nata con la volontà di fare chiarezza su questa situazione e che per questo raccoglie le testimonianze dei giovani del servizio di leva.

Ragazzi maltrattati, insultati, picchiati e prigionieri di un sistema chiuso, in cui controllori e aguzzini hanno lo stesso volto.

Il problema è particolarmente rilevante in quanto quello del servizio militare è una questione che coinvolge tutta la popolazione giovanile turca tra i 20 e i 30 anni, dal momento che la leva è obbligatoria.

L’esercito turco è il secondo più grande tra quelli della Nato, subito dopo le forze americane, e i nuovi effettivi che arrivano grazie alla coscrizione, ne rappresentano una fetta rilevante. 

Sulla scia delle polemiche provocate dalla pubblicazione del rapporto dell’Asker Haklari, il Parlamento di Ankara ha dato il via a un’inchiesta, affidandola alla commissione per i diritti umani.

Secondo quanto annunciato da Ayhan Sefer Üstün, a capo dell’indagine, il numero dei soldati ufficialmente morti suicidi negli ultimi 10 anni toccherebbe quota 1000, un numero impressionante se lo si paragona ai 818 soldati morti in ‘battaglia’. 

Ciononostante, e al di là dei grandi proclami, la leva è ancora obbligatoria e nessun provvedimento è stato preso. Il nuovo clima ha però dato nuovo vigore alla lotta delle molte famiglie delle vittime che ancora chiedono chiarimenti sulla sorte dei propri congiunti, soprattutto rispetto agli quegli episodi in cui le dinamiche delle morti appaiono quantomeno poco credibili.

Il ‘suicidio’ di Mazlum Aksu, curdo e di sinistra

Il 21 febbraio scorso, ad esempio, a morire “suicida” è stato Mazlum Aksu, un ragazzo di 20 anni. Mazlum era curdo e direttore – per il partito EMEP – del suo distretto.

Secondo la versione ufficiale, Aksu si sarebbe sparato un colpo alla tempia sinistra. I dubbi però sorgono quando si viene a conoscenza del fatto che il giovane non era mancino.

Appare dunque difficile (se non impossibile) che abbia impugnato con quella mano il fucile, del peso di 6 kg e lungo più di un metro.

Ciononostante, le autorità parlano di “suicidio” e di “disturbi psichici”, che si sarebbero manifestati proprio nei giorni che precedono l’accaduto.

Un copione che in realtà si ripete ogni qualvolta che avviene un decesso simile, dal momento che per il governo è normale che dei giovani di età compresa tra i 20 e i 24 anni siano affetti da “problemi legati alla crescita e alla maturazione”.

Da parte sua la Asker Haklari ha però risposto sottolineando come il tasso dei suicidi tra i militari sia superiore di 2,7 volte a quello che si registra tra i coetani turchi che vivono fuori dalle caserme.

Come l’Haklari, anche la famiglia di Mazlum nutre forti dubbi sulla versione ufficiale: mancavano solo 5 mesi alla fine del servizio del ragazzo, avevano parlato con lui da poco e non sembrava intenzionato a compiere un gesto del genere.

E poi ci sono i racconti che il giovane faceva ad amici e parenti, e dai quali emerge che i suoi superiori lo insultavano per il suo credo politico e l’origine curda.

Ma a questo punto torniamo ai dati. Dei 42 soldati morti suicidi nelle caserme turche nel corso del 2012, 39 erano di origine curda e uno di origine armena.

Come lo era Sevag Balikci, che sarebbe morto per un colpo partito da una pistola mentre, con altri commilitoni, stava “giocando” con armi cariche. Il processo che ne è seguito ha coinvolto molto l’opinione pubblica turca, tanto che per la pressione alcuni testimoni hanno confessato di aver ricevuto istruzioni sulla versione da fornire alla corte.

Dello stesso anno (2011) anche il caso di Ugur Kantar, a cui si ispira il lavoro dell’associazione Askar Haklari: Ugur è morto dopo tre mesi di coma. 

Anche lui sarebbe stato vittima di un ‘incidente’ avvenuto nell’ambito di quello che i soldati chiamano disko, un campo di rieducazione, che si trova nel nord di Cipro. Il giovane sarebbe stato tenuto senz’acqua per un giorno intero, e alla sue richieste insistenti, i superiori avrebbero risposto con percosse, calci e pugni, per poi abbandonarlo sotto il sole.

L’obiezione di coscienza in Turchia

Questa la situazione nelle caserme turche. Ora, se un giovane di vent’anni non volesse sottoporsi a una simile esperienza, anche perché di guerra non ne vuole sentire parlare, in Turchia non ha alternative.

In questo paese non esiste il diritto all’obiezione di coscienza.

Decidere di non sottoporsi al servizio di leva equivale infatti a compiere un crimine penalmente perseguibile e che viene punito con il carcere, secondo il codice penale militare del 1930 tuttora in vigore.

A tal proposito, l’articolo 318, modificato nel 2004, prevede una detenzione della durata di 6 mesi-due anni, per chi si ‘macchia’ del reato di promuovere il boicottaggio del servizio militare.

Secondo il rapporto di Amnesty International del 2012, che da anni dedica una sezione all’obiezione di coscienza in Turchia, il governo non ha messo in atto alcuna misura per modificare questa situazione a livello legislativo.

Le persecuzioni contro gli obiettori di coscienza sono continuate: dal 27 febbraio scorso, Ali Fikri Işık è in sciopero della fame, dopo essere stato condannato a un anno di carcere per diserzione.

Celebre anche il caso di İnan Süver, soprattutto per l’intervento del cantante irlandese Bono.

Anche lui si era rifiutato pubblicamente di prestare servizio militare ed è stato tenuto dietro le sbarre fino al dicembre 2011, quando grazie alle pressioni internazionali, ha ottenuto una libertà condizionata.

Verdetto di colpevolezza e condanna per Halil Savda, difensore dei diritti umani e una lunga storia come obiettore di coscienza, colpevole di aver “allontanato la popolazione dal servizio militare”: 100 giorni di carcere per lui, altri due procedimenti pendenti per le stesse motivazioni e una condanna arrivata dalla suprema corte d’appello.

Savda è un attivista per i diritti umani e per la nonviolenza, che nel 2004 si è dichiarato obiettore di coscienza e che per questo è stato perseguitato e arrestato molte volte.

Tra il 2004 e il 2009 ha passato più di un anno e mezzo in carcere. Nel 2007 ha sporto denuncia per aver subito maltrattamenti in prigione: ha testimoniato di essere stato picchiato, preso a pugni, costretto a restare
nudo per tre giorni dentro a una cella senza coperte, dormendo per terra. Nessuna inchiesta è stata aperta nel paese dopo la sua denuncia.

Nel giugno scorso è però arrivata la condanna da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo che gli ha dato ragione, riconoscendo che l’uomo è stato sottoposto a tortura e a trattamenti inumani e degradanti, in violazione dell’art. 3 della Convenzione europea sui diritti dell’uomo, senza contare che gli è anche stato negato un processo equo (art. 6) e il diritto alla libertà di pensiero, coscienza e religione (art. 9).

Ed è proprio su questo punto che si sofferma la Corte: le ripetute condanne da parte dei tribunali turchi nei confronti di Savda per il suo rifiuto ad indossare la divisa, così come il giudizio a cui è stato sottoposto davanti a un tribunale militare e ancora la persecuzione di cui è oggetto per aver sostenuto altri obiettori di coscienza, costituiscono delle violazioni molto gravi della carta europea per i diritti dell’uomo.

La ferma condanna per il paese da parte della Corte fa eco ai numerosi altri verdetti già espressi in materia.

Nell’ottobre scorso anche la Commissione per i diritti umani di Ginevra ha sollevato il tema. Nelle sue osservazioni finali dopo l’esame dell’implementazione del Patto sui diritti civili e politici, ha espresso la sua preoccupazione per il non riconoscimento del diritto all’obiezione di coscienza in Turchia e per i numerosi casi di “disertori” perseguiti penalmente e per la prima volta ha incluso questa questione tra quelle da monitorare per la procedura di follow up.

di Maria Letizia PeruginiOsservatorio Iraq

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