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Kurdistan

Dalkurd, la squadra dei rifugiati che gioca nella serie A svedese

E pensare che tutto era nato da un’istanza sociale, nemmeno troppi anni fa. Era il settembre del 2004 e Ramazan Kizil, rifugiato curdo in Svezia, fondò nella cittadina di Borlänge, una squadra di calcio per dare ai figli suoi e a quelli della sua comunità un luogo che li tenesse lontani dalla strada. La chiamò Dalkurd, la vestì con i colori e i simboli della bandiera curda, e partì senza troppe ambizioni dalla base della piramide calcistica.

Bene: la prossima stagione, quella squadra giocherà nella Superettan, la serie A svedese, dopo avere conseguito cinque promozioni negli ultimi sette anni. Una storia che ha i contorni della favola sportiva, ma che è figlia in realtà di un significativo e non casuale processo di consolidamento sportivo e identitario.

In Svezia, la comunità curda è composta da circa 84 mila persone, discendenti di rifugiati fuggiti alla fine degli anni ’60 dalle repressioni operate in Iraq, nella Siria dopo l’avvento al potere di Baath, dalla Turchia: il Dalkurd, in pochi anni, è diventato un simbolo tanto per loro quando per altre centinaia di migliaia di curdi sparsi per l’Europa, anche grazie alle dirette di Vîn TV – «Vîn», in curdo, significa amore – l’emittente satellitare in lingua curda i cui fondatori, i fratelli Sarkat e Kawa Junad Rekani, hanno acquistato il club un anno fa.

Orgoglio e identità, per un popolo senza stato e senza nazionale (se si eccettua quella non riconosciuta affiliata alla N.F. Board) ma con una squadra di club che sta tenendo alto l’onore nel campionati svedese e composta da giocatori-icone, come Peshraw Azizi – capitano e figlio di un combattente peshmerga – e il prolifico attaccante, il bomber Rawez Lawan. Tutti immigrati di seconda generazione che fanno parte di una rosa oggi decisamente multietnica, nella quale trovano posto anche due statunitensi, un giapponese, un nazionale della Sierra Leone, ma anche svedesi “indigeni” e tanti svedesi naturalizzati che hanno radici da sbandierare e rivendicare. Come Ahmed Awad, attaccante della nazionale palestinese, o i kosovari Kujtim Bala e Leonard Pllana.

Affinità elettive, perché pochi altri sport come il calcio portano a compimento il concetto sociologico di «comunità immaginata» elaborato da Benedict Anderson. E se è vero che – citando Eric Hobsbawm (in Nation and Nationalism since 1780) – «le comunità immaginate di milioni appaiono più reali in una squadra di undici persone e l’individuo, anche quello che fa solamente il tifo, diventa un simbolo della nazione stessa », proprio lì si posiziona il Dalkurd che sta facendo parlare di sé in tutta Europa.

 

di Lorenzo Longhi – Avvenire

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