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Turchia

Lettera di Demirtas dal carcere di massima sicurezza di Edirne

Scrivo queste parole dal penitenziario di massima sicurezza di Edirne, vicino al confine con la Bulgaria. La prigione si trova a sette chilometri dal centro di Edirne, in una zona vergine, priva di abitazioni, in mezzo a campi di girasoli. Ogni anno, nel mese di agosto i dintorni della prigione si tingono di verde e di giallo, coprendo con un’immensa orgia di colori le sue pareti grigie e monotone. Tutti conosciamo i girasoli. Crescono nel giro di pochi mesi e poi la loro faccia superiore, prima inclinata, si raddrizza per guardare il sole. Fin dalla mia giovinezza, e ancora oggi, ogni volta che guardo un campo di girasoli in fiore mi sembra di vedere una folla di ragazzi stretti fianco a fianco nel corteo di una manifestazione. Il fiume Tundža, proveniente dalle profondità della Bulgaria, scorre vicino alla prigione. Dopo aver serpeggiato per chilometri, la sua lunga linea verde incontra le acque del fiume Maritsa a pochi chilometri dal centro di Edirne. La confluenza di questi due corsi d’acqua mi evoca il ricongiungimento tra due amici tranquilli e felici che non si vedevano da anni. Ora, da venti mesi che sono qui, non ho mai avuto la possibilità di vedere né l’uno né l’altro fiume. E ‘ questo l’essere in prigione. Per capire la geografia del luogo in cui mi trovo devo fare uno sforzo di immaginazione. La verità è che sono rinchiuso in una cella che è stata dipinta tutta in grigio dal pavimento al soffitto, e che sto scrivendo queste parole su una sedia di plastica piuttosto scomoda. Ho nostalgia delle passeggiate nei campi di girasoli.

Un anno e otto mesi fa sono stato trasferito qui, dopo essere stato arrestato a Diyarbakır, capitale della regione curda della Turchia, dove vive la mia famiglia. Una distanza di circa 1.600 chilometri mi separa da lei e dai miei amici. Avvocato per i diritti dell’uomo, ho avuto modo di fare il giro di quasi tutte le prigioni della regione curda, al fine di individuare e denunciare le violazioni illegali a loro riguardo. Ma non mi hanno mai costretto a rimanere in prigione per tutto il tempo. Ora il mio destino non mi sembra particolarmente diverso da quello degli altri detenuti, a parte il fatto che sono un prigioniero politico conosciuto. Nelle prigioni turche ci sono decine di migliaia di persone che sono state incarcerate come “terroristi”, semplicemente perché hanno usato il loro diritto di esprimersi e di organizzarsi liberamente. In queste condizioni, anche se non posso dimostrarlo, mi sembra che la situazione in cui si trovano gli oppositori di Erdoğan che non sono in prigione è per certi aspetti certo migliore della nostra, ma per altri non lo è, è molto peggiore. Dove essa è migliore è nel fatto che possono muoversi liberamente in tutto il paese, che non sono separati da quelli che amano e che possono passeggiare finché vogliono nei campi di girasoli. Dove è peggiore è che non sono liberi come noi dietro le sbarre. Basta un commento da parte loro sui social, bastano poche frasi pronunciate sul lavoro o sulla strada contro il potere di Erdoğan e del suo partito AKP, basta una critica contro la politica condotta dallo stato sulla questione curda, basta l’organizzazione di una riunione in tema di diritti dell’uomo, basta anche non aver fatto nulla e però essere oggetto di una diffamazione anonima perché ci si trovi in prigione. Ecco perché, come potete constatare in questo testo scritto in prigione, qui si gode una maggiore tranquillità e ci si trova in più libertà. Qui non abbiamo paura del governo. Chi è fuori vive invece in una pericolosa prigione a cielo aperto.

Sono uno dei sei candidati alle elezioni presidenziali che si terranno il prossimo 24 giugno in Turchia. Non ho fatto nulla che potesse legittimamente pormi a fianco dei pochi leader politici passati direttamente da un ruolo politico importante alla prigione. E’ stato Erdoğan a impormelo, non io. Dopo la mia incarcerazione, un anno è passato senza che fossi portato davanti a un giudice. In seguito è successo solo due volte. Non intravvedo niente che possa farmi pensare che il mio processo sarà equo. Se la giustizia si svolgesse nel quadro previsto dalla legge, avrei già dovuto essere rilasciato. Al contrario, i giudici potranno prolungare un mio futuro processo quanto vorranno, oppure tenermi in prigione senza processo per più di un secolo, secondo il piacere del governo. Non mi aspetto niente, nessuna giustizia, da giudici e procuratori che tremano davanti a Erdoğan. Orbene, se nulla è la mia fiducia nelle istituzioni giudiziarie, grande invece è la mia fede nella capacità del popolo turco di liberare se stesso e di rendere indipendenza alla giustizia. A parte Erdogan gli altri quattro candidati alla presidenza si sono pronunciati a favore del mio rilascio. Per i nostri concittadini questa situazione è sconcertante. Perché, essi si chiedono, se sono colpevole, come Erdoğan martella ogni giorno nelle sue riunioni, sono tuttora candidato alla presidenza? E, se non sono colpevole, perché non sono stato ancora rilasciato? La risposta ai loro interrogativi è tuttavia chiara: se io fossi in libertà, come avvenne alle elezioni del 7 giugno 2015, ci sarebbe qualcuno, ed Erdogan lo sa bene, che contrasterebbe molto efficacemente quell’incubo che sono i suoi sogni autoritari, nonostante tutte le pressioni volte a contrastarmi, nonostante le discriminazioni che mi avrebbe riservato.

Sebbene i miei mezzi siano limitati, continuo a seguire da vicino la politica europea. Purtroppo debbo riconoscere che essa non fa molto a sostegno di quei cittadini della Turchia che lottano per la libertà, sia in prigione che in libertà. Le elezioni che si terranno a breve in Turchia esprimeranno innanzi tutto una scelta tra dittatura e democrazia. Orbene, anche se verrà completamente abbandonato il tema dell’adesione all’Unione Europea, il futuro della Turchia, in particolare in tema di sicurezza, economia, rifugiati, interessa direttamente l’Europa. Naturalmente posso comprendere come i paesi europei vogliano innanzitutto una Turchia stabile politicamente ed economicamente. Tuttavia, per me è sconcertante che in Europa non si ragioni su come il regime autoritario di Erdoğan, lungi dal favorire la stabilità economica e politica, sia fonte dell’instabilità più totale. I governi europei possono trovare nella sua politica delle risposte, a breve termine, ad alcune delle loro esigenze, in materia di economia o di politica migratoria, ma il fatto è che il dispotismo di Erdoğan non porta a nessuno dei risultati auspicati dai quei governi. Una crisi economica profonda si è ormai sovrapposta alla crisi politica che il dispotismo islamista e nazionalista di Erdoğan ha imposto ormai organicamente alla società turca. E se, alla sera del 24 giugno, Erdoğan proclamerà di aver vinto, grazie a stratagemmi, le elezioni, le molteplici crisi che colpiscono la Turchia non faranno che peggiorare.

Coloro che si chiedono perché Erdoğan, un uomo che ha mobilitato tutte le risorse dello stato per la propria campagna elettorale, che tiene sotto controllo il 90% dei media della Turchia, non rinunci a nulla per il potere, devono seguire più da vicino, per capire, la polemica che egli ha scatenato contro di me. Nella sua riunione del 10 giugno ha promesso ai suoi elettori che mi avrebbe fatto giustiziare. Ecco la domanda da porre ai leader europei che si preoccupano del destino della Turchia: avete, con il pretesto che non si può tornare indietro, a tal punto abbandonato i valori europei che osate ancora sedersi allo stesso tavolo con un uomo che promette agli elettori la testa di uno dei candidati che concorrono con lui alla presidenza della repubblica? Da parte mia posso dire, a mio nome e per la causa del popolo, che continuerò ad oppormi senza retrocedere di un passo, quindi a prescindere dal prezzo da pagare. So che in Turchia ci sono decine di milioni di persone che lottano come me per la pace e la democrazia, che non faranno alcun compromesso con quel regime autoritario. Proseguiremo, infine, la nostra lotta per l’uguaglianza, la giustizia e la libertà, indipendentemente dal risultato delle elezioni.

Selahattin Demirtaş, 12 giugno 2018, centro penitenziario di alta sicurezza di Edirne

Tradotto dal turco da Julien Tombolini di capanne

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