Il recente articolo di Eren Keskin riflette sulle implicazioni politiche della decisione di scioglimento del Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK) e sollecita lo Stato turco ad adottare misure democratiche significative, tra cui il rilascio dei prigionieri politici. Presentiamo la traduzione integrale del suo articolo, originariamente pubblicato su Yeni Yaşam Gazetesi il 21 maggio.
Eren Keskin, nota avvocata e difensore dei diritti umani, riflette sull’attuale fase di transizione politica in Turchia nel suo articolo d’opinione intitolato “Şimdi değilse ne zaman?” (Se non ora, quando?) pubblicato su Yeni Yaşam Gazetesi. In risposta alla recente decisione di scioglimento del PKK, Eren Keskin invita lo Stato turco ad adottare misure democratiche concrete, tra cui il rilascio dei prigionieri politici e malati. Riflette inoltre criticamente sul mancato rispetto da parte della Turchia dei propri obblighi giuridici internazionali, evidenziando questioni sistemiche come la dipendenza politica dell’Istituto di Medicina Legale e la continua applicazione del “diritto penale nemico”.
Se non ora, quando?
Come persone che vivono in questa geografia, ci stiamo preparando per una nuova era. Sebbene non sappiamo esattamente cosa ci riserverà questo periodo, lo attendiamo con speranza. Come difensori dei diritti umani abbiamo costantemente sostenuto soluzioni pacifiche e disarmate, anche durante le fasi più intense del conflitto. Oggi, questa posizione trova sempre più eco in diversi settori della società, soprattutto nella leadership politica. Questo è senza dubbio un segnale positivo.
Ma cosa ci porterà questo processo? Il movimento curdo ha dichiarato di aver deposto le armi e ha annunciato formalmente, in un congresso, che l’era della lotta armata nella nostra regione è giunta al termine. Come difensori dei diritti umani e membri di diversi gruppi sociali, abbiamo accolto con favore questa dichiarazione. È stato un momento cruciale. La cessazione del conflitto armato dovrebbe rimuovere tutti gli ostacoli alla libertà di espressione e di pensiero.
Sì, è così che dovrebbe essere. Ma accadrà davvero?
È qui che risiede la sfida. La preoccupazione fondamentale è se lo Stato adotterà misure significative e costruttive durante o dopo questo processo, e quali potrebbero essere tali misure. Abbiamo a lungo sottolineato che la Repubblica di Turchia è firmataria di numerosi trattati internazionali, tra cui quelli delle Nazioni Unite e dell’Unione Europea.
La ratifica della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) è, naturalmente, la più nota al pubblico. La Repubblica di Turchia non solo ha firmato questi trattati, ma la sua Costituzione include anche una disposizione all’articolo 90 che stabilisce che, in caso di conflitto tra diritto nazionale e diritto internazionale, quest’ultimo prevale.
In questo modo, la Turchia ha riconosciuto agli accordi internazionali forza di legge. Ma è davvero così? Certamente no. Questo perché la Repubblica di Turchia non è governata da uno stato di diritto in senso stretto. Pertanto, esiste un divario enorme tra il diritto scritto e la sua applicazione.
Se la Turchia avesse aderito alla CEDU, il nostro diritto alla libertà di espressione e di associazione, così come molti altri diritti come il diritto alla privacy, la libertà dalla tortura e la protezione dalle discriminazioni, sarebbero stati tutelati. Ma questa non è la realtà. Se lo fosse stata, le nostre attuali richieste, principalmente il rilascio dei prigionieri politici e malati, nonché l’abolizione della legislazione antiterrorismo che opera secondo la logica del “diritto penale nemico”, il ripristino della Convenzione di Istanbul e la fine dei discorsi d’odio e della violenza contro le persone LGBTQ+ e i rifugiati, sarebbero state soddisfatte.
Eppure, ancora oggi ci troviamo ad affrontare l’incertezza. Ci chiediamo se qualcuna di queste richieste verrà accolta. Non lo sappiamo. Davvero non lo sappiamo. Prendiamo ad esempio la questione dei detenuti malati. Lo Stato li rilascerà? Vorrei tornare particolarmente a parlare di un caso angosciante che ho già raccontato in precedenza, quello di Fatma Tokmak. Fatma Tokmakè in carcere dal 1996.
Fatma è stata arrestata per un crimine che non ha commesso ed è stata tenuta in custodia per 20 giorni insieme al figlio di due anni e mezzo, Azat. Durante la custodia, le sono state spente delle sigarette sulle mani e sulla schiena di Azat per costringerla a confessare. Sia la Fondazione per i diritti umani della Turchia che il Consiglio di medicina legale hanno confermato che queste lesioni sono state causate da ustioni intenzionali. Tuttavia, il Consiglio turco di medicina legale ha distorto i fatti sostenendo che non fosse possibile determinare il momento esatto in cui si sono verificate le lesioni. Nonostante questi tentativi di occultare la verità, la Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU) ha infine dichiarato la Turchia colpevole.
Fatma venne arrestata dopo un periodo di detenzione così traumatico, durante il quale lei e suo figlio furono torturati. Durante la detenzione sviluppò una grave patologia cardiaca. Nel 2000 mentre il suo caso era ancora pendente, venne rilasciata per motivi di salute. Tuttavia, una volta emessa la sentenza definitiva venne nuovamente incarcerata. Da allora è rimasta nel carcere femminile di Bakırköy. La sua malattia è peggiorata. Riesce a malapena a respirare e spesso necessita di ricovero ospedaliero. Nonostante le ripetute conferme da parte delle autorità carcerarie e di medici indipendenti che le sue condizioni sono gravi e un rapporto della Fondazione per i diritti umani che afferma che non è idonea alla detenzione, il Consiglio di Medicina Legale continua a insistere affinché rimanga in carcere.
In questo frangente, vorrei richiamare l’attenzione sul ruolo cruciale svolto dal Consiglio di medicina legale. È l’unica istituzione ufficiale autorizzata a valutare l’idoneità dei detenuti e a documentare i casi di tortura. Tuttavia opera all’ombra del potere politico. Abbiamo ripetutamente sottolineato che le valutazioni di medici e ospedali indipendenti dovrebbero essere riconosciute come prove. Inoltre, sebbene la CEDU si sia pronunciata contro il rifiuto della Turchia di riconoscere i referti medici indipendenti nel caso Şükran Aydın contro Turchia, la Turchia continua a concedere al Consiglio di medicina legale un’autorità esclusiva, pur non avendo alcun obbligo legale di farlo.
Secondo i dati dell’Associazione per i diritti umani, 1.412 prigionieri malati accertati sono attualmente detenuti nelle carceri turche. Questi sono solo i casi pervenuti all’Associazione. Molti altri rimangono inascoltati e inosservati. Tra questi, ci sono prigionieri gravemente malati e ancora in attesa di rilascio.
Se una nuova era è davvero iniziata, e se sia la leadership politica che diversi settori della società parlano di pace e disarmo, allora cosa impedisce il rilascio dei prigionieri malati? Non c’è tempo da perdere. Molti detenuti con malattie terminali e condizioni critiche sono in attesa dietro le sbarre di essere rilasciati. Come difensori dei diritti umani dobbiamo chiederci: “Se non ora, quando?”
E, naturalmente, il problema non riguarda solo i prigionieri malati; molti altri sono incarcerati esclusivamente per le loro convinzioni, inclusi politici, parlamentari, co-sindaci e prigionieri di Gezi, così come giornalisti. Molte persone sono dietro le sbarre esclusivamente per i loro pensieri e le loro convinzioni, e dovrebbero essere rilasciate immediatamente. Se il processo di disarmo è già iniziato, non ci può essere alcuna giustificazione per tenerli in prigione.
Eren Keskin
* Con “diritto penale nemico” (in tedesco anche “Feindstrafrecht”) si intende un concetto nella giustizia penale che distingue tra cittadini comuni e coloro che sono considerati “nemici” dello Stato.Questi “nemici” sono solitamente individui percepiti come una minaccia significativa per l’ordine legale e sociale costituito, spesso attraverso comportamenti criminali persistenti o violenti. (ndr) .
