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Rassegna Stampa

Zehra Dogan, fumetti dal carcere

Incontri. In una graphic novel «Prigione N. 5» l’odissea dell’artista, attivista e giornalista curda- Due anni, nove mesi e ventidue giorni di reclusione. Il prezzo da pagare per un Tweet sotto il regime «democratico» di Tayyip Erdogan. Ma anche l’occasione per raccontare la vita nelle galere turche. Zehra Dogan l’ha fatto nel suo Prigione N. 5, romanzo grafico edito da BeccoGiallo che alza l’asticella del «graphic journalism» oltre ogni portata attraverso la sua prospettiva unica. Dogan, però, minimizza: «M’interessano tutte le tecniche artistiche e di volta in volta scelgo il mezzo più consono al momento e alle mie capacità. Ma non riesco a pensare a me stessa come a un’autrice di romanzi grafici. Ho scelto questo mezzo solo perché pensavo che attraverso di esso avrei potuto raccontare nel modo migliore la mia prigionia. Non pensavo di farne un libro». Chapeau, dunque, ai «veri» fumettisti che per tutto il periodo della detenzione e anche dopo hanno sostenuto l’autrice oggi trentaduenne per far sì che Prigione n. 5 trovasse una casa: il Jacques Tardi di Adele Blanc-Sec e i nostri Zerocalcare e Gianluca Costantini. E chapeau a chi durante la prigionia iniziata nel 2016 tra Diyarbakir e Tarso ha continuato a scriverle usando sempre la stessa carta da lettera e lasciando intonso il retro di ogni foglio per lasciar spazio a questa lettera dal carcere di 128 pagine.

UN SUPPORTO PREZIOSO su cui Dogan ha lavorato con il poco a sua disposizione: qualche mozzicone di matita, fondi di tè o caffè, fluidi corporei, pennelli ricavati da capelli o piume d’uccello… «Materie prime e tecniche che utilizzo ancora oggi. Difficoltà, divieti, pressioni e scarsità di risorse mi hanno stimolato nella mie ricerca, influenzando inevitabilmente tutto ciò che utilizzo nel mio lavoro. Le mie creazioni continuano a prender forma dalla mia esperienza di vita». E accanto agli attrezzi del mestiere, il formidabile flusso di coscienza condiviso con le compagne di cella. «Erano tutte sempre presenti, non solo con le rispettive esperienze, riflessioni e storie di vita, ma anche con la loro partecipazione al processo creativo vero e proprio. A volte, semplicemente facendo gruppo intorno a me e guardandomi lavorare. Altre volte, con un contributo diretto. Durante la pausa caffè settimanale, ad esempio, stendevo un panno sul pavimento perché ognuna di noi imprimesse l’impronta della sua tazza su di esso. Ne scaturivano cerchi perfetti ma anche forme più curiose che utilizzavo come base per i miei disegni».

NEL VOLUME, l’odissea del popolo curdo è scandita da alcune date simbolo: il 1978, anno della fondazione del Partito dei Lavoratori del Kurdistan. il 12 settembre 1980, giorno del colpo di stato che porta alla carcerazione, alla tortura e alla morte di centinaia di militanti e cittadini da parte della giunta militare di Evren. gli Anni ’90, con le persecuzioni da parte di servizi segreti turchi e hezbollah. E infine, gli Anni duemila, con l’avvento di quello che Mario Draghi ha definito «un dittatore con cui però bisogna collaborare».

PAROLE FORTI, ma inutili. «Il vostro Primo ministro ci ha visto giusto. Ma quando si tratta di firmare contratti, la sua vista peggiora. Se non fosse per le sue conseguenze, questa ipocrisia farebbe sorridere. Ma il Rojava conosce il prezzo dell’indifferenza. E rispetto alla condizione femminile non basta deplorare la fine della “Convenzione di Istanbul”, è necessario intraprendere passi concreti perché la Turchia sia sanzionata. Quindi, come dice la canzone “parole, parole…”». Se per l’Europa la questione curda resta un clamoroso rimosso, per la sceneggiatrice e disegnatrice curda la ferita è rimasta aperta anche dopo il suo rilascio, avvenuto nel febbraio 2019. L’inizio di un’esistenza itinerante densa di opportunità artistiche, politiche e mediatiche che l’ha portata a Londra, in cui però la distanza da casa si fa sentire. «Mi tengo in contatto con la mia famiglia, gli amici, i compagni di carcere rilasciati ma anche quelli ancora dietro le sbarre», sottolinea Dogan. A volte, addirittura arrivando a rimpiangere il luogo che dà il titolo al libro. «Sogno spesso di ritrovarmi di nuovo in prigione. Ma quando mi sveglio, a colpirmi è la nostalgia per i rari momenti di serenità con i miei amici in carcere. Non è strano sentire la mancanza di un luogo tanto terrificante?». Nel frattempo, tutto si tiene: la testimonianza, la militanza, l’arte. E per fortuna, anche il fumetto. «Tra il 2015 e il 2016, mentre seguivo gli abusi turchi nelle città curde come giornalista, avevo iniziato un progetto a fumetti che precede Prigione N° 5. Prima del mio arresto, avevo inviato diversi disegni a un amico, ma in prigione il lavoro era rimasto in sospeso. Ora ho trovato la documentazione e le testimonianze che mi mancavano per completarlo, e intendo farne uno dei miei prossimi impegni».

Andrea Voglino
Il Manifesto

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