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Rassegna Stampa

Dersim brucia. E il mondo se ne frega

Qualche giorno fa la giornalista Nurcan Baysal aveva denunciato, per l’ennesima volta, i devastanti incendi boschivi «provocati dalle operazioni militari che imperversano da due mesi a Dersim, provincia curda nella Turchia orientale». Senza naturalmente dimenticare che Dersim, popolata da curdi aleviti, nel 1938 era stata teatro di «un brutale massacro attuato dalle forze di sicurezza, un massacro in cui decine di migliaia di persone sono state uccise e sfollate».

Circondata da montagne ricoperte da folte foreste, la città di Dersim nel 2018 ha visto scoppiare i primi devastanti incendi boschivi in luglio nella zona di Aliboğazı. Ma – ricordava sempre Baysal – «né il governatore provinciale di Tunceli, né le autorità forestali, né nessun altra istituzione ufficiale ha fatto qualcosa per spegnere le fiamme». Sono invece immediatamente intervenuti, lavorando duramente, i volontari e le organizzazioni ambientaliste locali.

Questi primi incendi hanno imperversato per oltre due settimane. Altri ne sono scoppiati in agosto, sempre in contemporanea con le operazioni militari dell’esercito turco (il maggior responsabile nello scatenare le fiamme) contro la guerriglia curda. In particolare, nei distretti di Pülümür, Hozat, Nazmiye, e Ovacık.

Migliaia di ettari di foreste sono andati in fumo, centinaia di migliaia di animali selvatici carbonizzati.

Ambientalisti, militanti di sinistra, abitanti dei luoghi che si erano mobilitati sono stati letteralmente bloccati dalle autorità locali (per “ragioni di sicurezza”) ma le stesse autorità, per quanto sollecitate in tal senso dalla popolazione, non sono intervenute per fermare il fuoco devastatore.

Non solo! Chi ha denunciato la grave situazione, è stato accusato di «sostenere il terrorismo del PKK». Da manuale.

La giornalista si era detto particolarmente amareggiata per quanto accadeva sulla montagna di Cudi – non lontano da Diyarbakir, sua città natale – che negli ultimi anni ha visto diminuire drasticamente, quasi scomparire, flora e fauna selvatica «a causa degli incendi provocati dalle operazioni militari».

Possiamo solo immaginare cosa avrebbe provato Sakine Cansiz (assassinata nel 2013 a Parigi – insieme ad altre due compagne curde – da un sicario manipolato dai servizi segreti turchi) contemplando inorridita l’incendio sistematico dei boschi – fitti e densi, da non poterci quasi entrare – a Dersim, sua città natale. Migliaia di alberi secolari ridotti in cenere dall’odio di Stato, un odio che si riversa anche sui luoghi da cui si cerca di allontanare i curdi con la forza.

Va ricordato che in oltre trentanni di guerra contro il PKK, Ankara ha forsennatamente saccheggiato i territori curdi, bruciato le foreste, avvelenato fiumi e torrenti. Anche con l’utilizzo di armi chimiche che hanno causato degrado ambientale e malattie. Fonti di Dersim hanno da tempo denunciato un significativo incremento delle malattie tumorali, in numero maggiore rispetto ad altri territori sotto amministrazione turca.

Murat Çepni – membro del parlamento ed esponente del Partito Democratico dei Popoli (HDP, all’opposizione) – ha denunciato senza mezzi termini che «gli incendi costituiscono un crimine costituzionale».

Stando alle sue dichiarazioni, fra il 16 e il 23 luglio «più di 90 incendi si sono sviluppati in 33 distretti, ma gli incendi nella regione curda sono stati trascurati dai media. Non c’è stata copertura nei media internazionali».

Urge un appello agli ambientalisti turchi, gli stessi che avevano saputo ribellarsi – coraggiosamente – per gli alberi di Gezi Park: «Non permettete che il vostro Stato (o meglio: quello che pretende di esserlo, di rappresentarvi) compia questo ulteriore ecocidio contro la natura del Kurdistan».

di Gianni Sartori

 

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