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Kurdistan

La vita a Nusaybin-Report

Siamo arrivati a Nusaybin il secondo o terzo giorno da quando è possibile rientrare. Siamo su un bus da 15 posti, veniamo da Mardin, insieme a gente con bagagli. Il posto di blocco è su una strada di grande comunicazione. Da un lato i camion vengono fatti continuare sulla strada, dall’altro si entra in paese. Prima controllo dei bagagli, sotto un sole implacabile, sono le tre del pomeriggio, i mezzi restano fermi al sole anche mezz’ora. Fanno pena pure i poliziotti fermi a controllare. Subito dopo, altro check point: documenti. Vengono controllati i nostri passaporti, chiedono anche di vedere foto sulla mia macchina fotografica, ma ce n’è tantissime, tutto Ok, possiamo entrare in paese.

Certo è che da cinque mesi nessun forestiero è entrato a Nusaybin

Siamo cotti anche noi, cerchiamo un posto per mangiare qualcosa, ecco una pasticceria che forse ha appena riaperto. “Chai? ” Si, e pane e biscotti. Scarichiamo gli zaini e ci sediamo. Entra subito un mucchio di gente, non si capisce se per la pasticceria o per noi, certo vengono tutti da noi. Uno che parla anche tedesco mi riconosce come parte della delegazione a Cizre l’anno scorso. Uno dice di essere deputato HDP e potrebbe accompagnarci in giro, poi ci ripensa e dice che è meglio di no. Alla fine lasciamo lì gli zaini e usciamo da soli.

Davanti a noi una recinzione cementata in un muretto che taglia la strada per tutta la sua lunghezza. Rete di quella spessa. Al di là case sventrate saracinesche divelte…. è una zona off limits, non ci si può più entrare, tale è la distruzione. Camminiamo lungo la recinzione, sembra un grosso quartiere quello che è tagliato fuori. A un certo punto fa una curva, ci sono transenne della polizia, ma ci fanno segno che si può passare. E le visioni sono allucinanti, anche perché stiamo entrando con gente che torna ora alle proprie case. Per la prima volta NON vedo bambini che gridano, corrono, giocano, fanno segni a V con le dita.

Donne che si fermano davanti alla loro casa bruciata, crivellata di colpi, con le saracinesche del piano terra divelte: non osano entrare.

Uomini che come noi fanno le foto alle loro case, nella zona off limits, ma loro foografano le loro case distrutte, a cui non possono accedere.

Qualcuno spinge macerie fuori da casa.

Qualcuno evidentemente è già venuto ieri, ora ha gruppo elettrogeno, flex e saldatrice e comincia a lavorare.

Un altro sta già mettendo un vetro, ma c’è qualche misura sbagliata, si ferma, ricomincia.

La polizia ha un controllo totale del territorio, girano dappertutto con delle jeep enormi, blindate, munite di torrette da cui sparare, ce ne saranno almeno un centinaio. Sappiamo (lo scopriremo in prigione) che ci sono ancora sacche di resistenza dentro la città. Il coprifuoco è ancora in vigore.

Nusaybin è sempre stata una roccaforte del PKK. Per questo dopo la dichiarazione di autonomia del comune e il solito avvio delle cariche doppie, un uomo e una donna in tutti gli incarichi, la città ha risposto all’attacco delle forze di polizia. Da mesi continua la battaglia, ma a un certo punto il PKK ha deciso di lasciare la città per non causare ulteriore sofferenza alla popolazione. E così la polizia ha avuto buon gioco a mettere bombe nelle case che la gente aveva man mano lasciato, e a dire poi che era stato il PKK; l’ultima, più terribile, era in un frigorifero che un bambino ha aperto, rimanendo ucciso.

La polizia usa armi speciali, invece, cosa strana, non c’è presenza dell’esercito. E la polizia non ha divise, l’unico segno di riconoscimento è la pistola infilata nella cintura, il che fa pensare a una forza parallela.

Continuiamo il nostro giro, andiamo verso il confine, dalla strada che collegava Nusaybin con Qamishli. Oltre la frontiera è Qamishli, città del Rojava che non è mai stata presa da Daesh, ma dove si sono succeduti gli attacchi suicidi, fino a quello di qualche giorno fa, con oltre 50 morti. Stiamo parlando con il capannello di persone che si forma, di questa assurda divisione tra kurdi, di qua e di là della frontiera. Ma sopraggiunge un blindato, ci guarda, esita, si ferma, scendono e ci fermano. Saranno tre giorni di prigione, l’accusa di spionaggio internazionale o appartenenza a gruppi terroristici. Infine il processo, l’assoluzione, un’ora di libertà, di nuovo il fermo, il CIE e la deportazione.

La traduttrice che viene messa per noi? Casa distrutta. L’avvocato d’ufficio? Casa distrutta. In prigione ci tengono in tre celle separate, ma con me e con Petro passano in tanti; uno che parla un po di arabo dice che è combattente. Nella stazione di polizia, oltre ai blindati, ci sono due enormi escavatori, con braccio così lungo come non ne ho mai visto, possono arrivare a demolire un quinto piano! E allora? Hanno forse intenzione di espropriare e radere al suolo il quartiere off limits? Per procedere con la politica del rimescolamento etnico e mettere lì dei siriani che siano grati a Erdoğan?

Biji berxwedana Nusaybin!

Abu Sara, Petro e Rebecca

 

 

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