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Kurdistan

Dal Tribunale di Istanbul: Processo agli avvocati curdi

“Lo sapete che le guardie carcerarie con la legge sulla sicurezza sono autorizzate a torturare i detenuti? Lo sapete che in carcere vengono usati manganelli, gas lacrimogeni, cani contro i prigionieri?”. Tribunale di Istanbul. In un’aula stracolma al quinto piano del palazzo inizia il processo a carico di dodici avvocati curdi della Association of lawyers for freedom (Ohd) accusati di essere membri del Pkk per aver, di fatto, preso apertamente posizione contro la violazione dei diritti umani in Turchia.

Le prove sarebbero proprio le dichiarazioni rilasciate alla stampa, i report di denuncia consegnati alla Corte di giustizia europea, le visite in carcere ai loro clienti. Con loro imputati anche trentotto volontari dell’associazione per la solidarietà alle famiglie dei detenuti (Tuad): madri, padri, fratelli di reclusi accusati di fare da tramite tra dentro le carceri e fuori, solo per essere andati a far visita ai propri parenti. È l’effetto della normativa anti-terrorismo approvata dal parlamento turco il 28 marzo scorso, poco prima delle elezioni, che ha esteso all’infinito la definizione di “terrorismo”. A nulla è valsa la richiesta dell’Unione europea di alleggerire la legge per procedere alla liberalizzazione dei visti per la Turchia prevista dall’accordo sui migranti (in particolare proprio attraverso un “migliore allineamento della definizione di terrorismo” alla normativa europea). Ankara tira dritto per la sua strada e continua a “rastrellare” giornalisti, accademici, attivisti, avvocati impegnati nelle difesa dei diritti umani.

E tutti, guarda caso, curdi. Le indagini sul caso Tuad (così è stato rinominato il processo dal nome dell’associazione coinvolta) sono partite nel 2011, ma sono state chiuse solo a marzo con una retata negli studi legali nel centro di Istanbul e l’arresto di nove avvocati, di cui due ancora in carcere. A difendere i cinquanta imputati ci sono duecento legali provenienti da tutto il Paese. In aula, per la partenza del processo, c’è anche una delegazione internazionale di avvocati che faranno da osservatori al processo. La porta però è stata chiusa a chiave: chi esce non può più rientrare, chi è fuori non entrerà mai. Ayse Aciniki, giovane avvocata impegnata nella difesa dei detenuti, in carcere da 78 giorni, si rivolge ai giudici per le sue dichiarazioni spontanee. “Lo sapete – dice – che i malati, in carcere, non vengono curati ma lasciati morire? Lo sapete che vengono continuamente torturati?

Lo sapete quanto è alta la percentuale di detenuti morti appena usciti dal carcere? E allora ditemi perché, io che sono un avvocato, non dovrei difendere queste persone? Sono donna, curda, alevita e socialista. È questo per voi il problema”. È in carcere da 78 giorni anche Ramazan Demir, curdo di Cizre, la città fantasma al confine con l’Iraq, distrutta dalle truppe turche durante un’operazione anti-terrorismo che ha portato all’uccisione di centinaia di civili. Demir (oltre a essere l’avvocato dei giornalisti e accademici accusati di terrorismo) ha preparato e consegnato direttamente alla Corte di giustizia europea un report per denunciare la violazione dei diritti umani a Cizre. Ha poi pubblicato sul suo profilo twitter centinaia di foto con cui accusava il governo turco di un massacro nei confronti della popolazione curda. Tutte prove adesso, secondo l’accusa, della sua appartenenza a un’organizzazione terroristica. In particolare un tweet, “i martiri non muoiono mai”, con allegata una foto che sembrava venire direttamente dal Kurdistan degli anni Novanta: un blindato della polizia turca che trascina per le strade il corpo di un 24enne militante del Pkk appena ucciso.

“Come posso descrivere in 140 caratteri tutto quello che è successo dal momento che le ong non ci riescono nemmeno in centinaia di pagine? – commenta in aula l’avvocato imputato – I corpi bruciati, quelli massacrati, i cadaveri nei frigoriferi, i bimbi uccisi, le madri che non potevano recuperare i corpi trucidati dei propri figli in strada, le case distrutte, bruciate. Come posso raccontare tutto questo – ripete – in 140 caratteri? Il pubblico ministero è più preoccupato di accusare me, che denuncio crimini contro l’umanità, piuttosto che accusare quelli che li compiono, questi crimini”. Per lui l’accusa è anche di propaganda e rischia venti anni di carcere. Secondo i legali il processo è “puramente politico”, dal momento che “sono stati accusati per il lavoro che fanno”, spiega in aula Sezin Ucar, avvocata, anche lei finita in carcere in passato con l’accusa di far parte del Mlkp, il partito comunista illegale turco. “Come prova avete le liste delle visite in carcere – riprende l’avvocata – Ma come può un avvocato difendere un proprio cliente senza andare in carcere?”. “Per me quelle visite non erano per lavoro”, risponde secco in aula il pm, Orahan Aydin.

Gli avvocati difensori sostengono anche le prove messe agli atti non siano valide, dal momento che a dare l’okay alle intercettazioni e alle indagini è stato un giudice adesso in carcere con l’accusa di corruzione, per aver falsato numerose indagini: Suleyman Karagei. “Se un albero è avvelenato darà frutti avvelenati”, commenta in aula l’avvocato Batiri Bayran Belen. “Già in passato – continua – abbiamo dovuto dimostrare, in processi simili, che le indagini erano pilotate e che gli accusati erano innocenti”. Inoltre i difensori hanno potuto accedere ai settanta fascicoli del processo solo quindici giorni prima dell’udienza. Per questo hanno chiesto l’interruzione del processo per “fare indagini pulite”. Ma la richiesta non è stata accolta. Fosse solo questo: per poter agire nei confronti di un avvocato, in Turchia, è necessaria l’autorizzazione del ministero della Giustizia. Autorizzazione però mai richiesta dal pubblico ministero. Gli avvocati hanno quindi chiesto l’immediata scarcerazione dei due avvocati. Ma anche in questo caso la risposta è stata picche: i due avvocati rimangono in carcere.

 

Di Melania Carnevali

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