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Interviste

Io, Dilek Ocalan, contro il sultano Erdogan

Parla la nipote di “Apo” – guida politica e spirituale dei curdi, ora detenuto nell’isola-prigione di Imrali – appena rieletta parlamentare nell’Hdp: “Il cognome ha per me un grande peso come immagino lo avrà per i nostri nemici”. Il trionfo dell’Akp? “Ha vinto la strategia della tensione, il governo si è mostrato nella sua natura sanguinaria e autoritaria. Anche la mia macchina è stata colpita”. E sulla resistenza di Kobane, “la rivoluzione del Rojava mostra come la vittoria possa essere ottenuta solo con il supporto e il protagonismo femminile”.

intervista a Dilek Ocalan di Egidio Giordano, traduzione di Simona Deidda

Dilek ha trent’anni, un bellissimo sorriso. È stata appena rieletta deputata dell’HDP, partito filo-curdo che alle elezioni politiche in Turchia di domenica scorsa ha superato per poco la soglia del 10% prevista per entrare in Parlamento. Un traguardo che potremmo definire miracoloso, considerando il clima di tensione e la comprovata quantità di brogli che sembrano aver determinato la schiacciante vittoria dell’Akp di Recep Tayyip Erdogan.

Il cognome di Dilek è pesante, quasi un affronto per Erdogan: Ocalan. Una somiglianza quasi impressionante con lo zio, “Apo”, guida politica e spirituale dei curdi, ora detenuto nell’isola-prigione di Imrali. Quando ci hanno comunicato che avremo svolto il nostro ruolo di osservatori internazionali qui ad Urfa ci siamo ricordati che è la provincia natia di Ocalan, la stessa in cui vive tutt’oggi la sua famiglia. Già a giugno Dilek apparteneva alla pattuglia degli 82 deputati dell’Hdp entrati in Parlamento. Anche a queste elezioni ce l’ha fatta. Sorseggiando il classico chai, nelle stanze dove è cominciata la resistenza curda, avviene il nostro dialogo.

Una Ocalan siede nel Parlamento turco: un vero affronto per quei partiti che nei decenni passati hanno provato a silenziare la rivendicazione di autonomia e libertà del popolo curdo. Come vive questa importante responsabilità?

Il cognome (e soprattutto la provenienza familiare) ha un grande peso come immagino lo avrà per i nostri nemici. I risultati di oggi sono il frutto dei sacrifici e del lavoro di rivendicazione di diritti e democrazia che è stato portato negli anni, anche da chi ci ha preceduto. Questo è motivo di felicità e orgoglio. A causa della guerra civile e della destabilizzazione, dopo il 7 giugno, sono stata in Parlamento poche volte perché Erdogan, fino a ieri, non aveva riconosciuto quel Parlamento di cui non era il sovrano assoluto. Non aveva accettato di aver perso la maggioranza assoluta. Da quel momento, il Governo ha innescato una escalation di omicidi e violenza al solo fine di bloccare attraverso la paura la crescita del nostro partito e il processo di democratizzazione della Turchia. Il governo ha rimbracciato le armi e si è mostrato nella sua natura sanguinaria e autoritaria.

L’HDP, durante questi mesi, è stato ripetutamente colpito da quel che definiamo “fuoco nemico”: molti membri del partito, o suoi sostenitori, sono stati assassinati. Anche la mia macchina è stata colpita. Stiamo cercando di risollevarci e ritrovarci anche se la situazione è decisamente cambiata: abbiamo a che fare con un partito che si è totalmente identificato in una persona, il dittatore Erdogan. Per tali ragioni in campagna elettorale, abbiamo cancellato appuntamenti pubblici e il comizio di chiusura: non volevamo avere problemi e perdere altri compagni e compagne.

A proposito delle stragi, davanti alle immagini terribili di Ankara e di Suruc sono venuti in mente i nostri anni Sessanta, quando in Italia molti innocenti persero la vita in attentati in cui erano implicati i poteri eversivi dello Stato e la destra fascista. Crede che la definizione “strategia delle tensione” sia utilizzabile per quel che sta accedendo oggi in Turchia?

Sicuramente, basta pensare ad una frase pronunciata nei giorni scorsi dal premier AKP, Ahmet Davutoğlu, il quale ha affermato, a mò di minaccia: “Tutto ciò è successo perché l’AKP non ha ottenuto abbastanza potere”, quasi a confermare che la strategia della tensione, la violenza e le armi sono state utilizzate per riacquistare il potere perduto. Naturalmente noi siamo perfettamente a conoscenza di ciò che accadde in Italia negli anni ’60 e ’70, così come in tutti quei Paesi in cui i poteri forti hanno utilizzato il terrore per confermare il proprio governo autoritario. Noi curdi siamo consapevoli delle pagine di oppressione brutale più vergognose della storia, e, forti di questa conoscenza, in maniera intelligente stiamo cercando di cambiare il destino del popolo turco e curdo.

Dilek Ocalan, quanto e come è stata importante la figura di suo zio, Apo, nella sua formazione politica? Che debito ha nei suoi confronti?

Un debito enorme. Sfortunatamente la sua lunghissima carcerazione mi ha impedito di crescere con lui, tuttavia questa figura così importante mi ha insegnato molto sul mondo. Mi riferisco ad esempio al concetto di uguaglianza nel rispetto delle differenze  culturali, di personalità, di identità. Essere cresciuti con lui e con le sue idee è stato ed è tuttora un onore. Io e lui non ci siamo mai relazionati come nipote e zio, perché la sua filosofia sulle donne è stata da subito applicata in famiglia e anche nei miei confronti. Sono stata cresciuta come una compagna che vive e agisce nella comunità e come tale deve essere trattata. Questi sono i miei principi e i miei valori. Mio zio è una persona straordinaria, che ha dedicato l’intera vita alla libertà della gente, soprattutto alla libertà e ai diritti delle popolazioni del Medio Oriente, provando ad elaborare una soluzione alternativa e di pace, non solo per i curdi, una sorta di terza via democratica per il benessere di tutti i popoli di quest’area. È per questo motivo che la sua carcerazione così prolungata rappresenta un grosso problema per il processo di pace.

Su chi pesano le maggiori responsabilità dell’arresto e della carcerazione così dura di Abdullah Ocalan?

Beh, la colpa dell’arresto del Presidente, nel febbraio 1999, deve essere certamente imputata ai Paesi europei che sono stati coinvolti, con particolare riferimento alla Grecia il cui governo fu l’artefice materiale della consegna. È il motivo per cui, nonostante siano passati così tanti anni, abbiamo deciso di istituire una corte che lavorerà, proprio dalla Grecia, per riaprire il caso Ocalan: fu innegabilmente un complotto internazionale, speriamo che i responsabili possano essere indagati e pagare per quel che hanno fatto. Vogliamo ottenere giustizia e, semmai ci fosse vittoria, devolvere i soldi di un eventuale risarcimento, oltre che per le spese legali, anche a tutte quelle associazione civili greche che ci hanno sostenuto. La corte inizierà a lavorare il 9 novembre, tra pochi giorni.

Che notizie possiede a proposito delle condizioni dell’attuale regime di detenzione e che speranze ci sono per la ripresa del processo di pace?

Per sei mesi e mezzo non abbiamo avuto sue notizie. E prima, per un anno e mezzo, mio zio non ha avuto l’autorizzazione a vedere nessuno dei suoi parenti. Pensiamo che questo sia il trattamento di un prigioniero politico che non gode di nessuna garanzia e noi non possiamo accettare che le altre nazioni abbiano avallato e stiano ancora avallando tale assurdità. Mio zio – che nel 1999 ha annunciato il cessate il fuoco unilaterale – voleva che le cose andassero in una direzione diversa da quella attuale. Prima di ogni altra cosa, noi continueremo a lavorare per far sì che il processo di pace venga riaperto, nonostante i recenti avvenimenti. E nonostante immediatamente dopo il suo avvio, tre anni fa ormai, non siano stati rispettati da parte turca i dieci obiettivi e gli step che erano stati decisi di comune accordo.

L’elaborazione della teoria del confederalismo democratico e l’abbandono della rivendicazione di uno stato nazione indipendente hanno rappresentano un punto di svolta decisivo nella vicenda curda. Così come straordinaria è l’attenzione alla questione femminile e la consapevolezza della necessità di una uguaglianza sostanziale tra uomini e donne come pratica di per sé rivoluzionaria. In Rojava su questi due pilastri si sta costruendo una società democratica e paritaria. Ebbene, cosa rappresenta secondo lei questo modello di organizzazione di governo, vita e relazioni sociali?

Quando parliamo di femminismo e confederalismo in riferimento al Rojava parliamo innanzitutto di un posto in cui ognuno, ogni singolo individuo, oggi può rappresentare ed esprimere se stesso liberamente. L’idea è quella di provare a strutturare dei poteri locali che rappresentino la popolazione, un sistema di municipalità che si riunisce in un centro decisionale più grande ma senza escludere nessuno dalle decisioni. È una pratica esportabile e che anche l’Hdp ha provato, dove amministrava le città, a mutuare questo modello dal Rojava, ma ha trovato il muro della Turchia di Erdogan che non accetta il modus operandi del sistema confederale.

Naturalmente. Per quanto riguarda la questione femminile, innanzitutto metà della popolazione del pianeta è composta da donne per cui quando si parla di rappresentanza popolare deve essere necessariamente presente la componente femminile. Senza donne la rappresentanza non è possibile. E la rivoluzione del Rojava mostra come la vittoria possa essere ottenuta solo con il supporto e il protagonismo femminile. E le vittorie delle YPJ (Unità di difesa delle donne, ndr) hanno contribuito e contribuiscono alla diffusione di questo messaggio con straordinario successo. Sono convinta che ispirandoci a quel modello confederale, femminista ed ecologista, avremo tutta la forza e gli strumenti per continuare a difendere la democrazia, la giustizia e la libertà dalle aggressioni di questo nuovo governo.

(2 novembre 2015)

Micromega

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