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Diritti umani

Diario dal campo profughi di Yeniseir: la tragedia degli yazidi

Roberto Mulas) – Nel campo di Yeniseir, in Turchia vivono da settembre 3600 persone. Collocato a 40 km da Diyarbakir -maggiore città del Kurdistan turco- ospita da agosto una parte di popolo yazida, sotto assedio dal Daesh. Nonostante l’indole estremamente pacifista degli Ēzidī (in curdo) sono già morti in migliaia, decine di migliaia di persone. Contano tra i ricordi e la trasmissione orale 73 tentativi di genocidio delle loro tribù.

Gli Yazidi venerano Melek Ṭāʾūs, un angelo dalle sembianze di un pavone. Il culto di Melek Ṭāʾūs non è ben definito e deriva probabilmente dalle antiche venerazioni pre-islamiche degli abitanti della Mesopotamia. Esso contiene elementi di islam, giudaismo, mazdeismo, mitraismo e manicheismo. Il Kurdistan resta però la patria storica da quando i curdi stessi ne hanno richiesto il riconoscimento come facenti parte del loro popolo in seguito alle oppressioni subite per mano di Saddam Hussein.

E’ proprio grazie ai curdi del’YPG (unità armata di difesa del popolo curdo) è stato possibile aprire un corridoio che dall’Iraq – oltre a un comparto di difesa del Sinjar – li portasse in Turchia per salvarli dall’Isis. Contemporaneamente è stato svolto un lavoro di formazione grazie al quale possono in parte autodifendersi. Le origini geografiche sono sia del Sinjar (Gebel Singiār), il monte iracheno che ospita da sempre questa popolazione, sia della zona di Shaykhān, nei villaggi come (Shingal, Zumar e Bahshiq) a 160 km circa a oriente della città di Mosul (quest’ area è diventata ora un’enclave di popolazioni minoritarie). A causa di un’evidente diversità rispetto a qualsiasi altra religione nel mondo l’esigenza di autonomia e autogestione diventano prioritari, insieme alla richiesta di tutela dei diritti.

Il campo prima ospitava 7000 profughi; parecchi sono tornati a Sinjar e in altre città al confine tra Siria e Iraq, andando incontro al nemico. Il campo non è affatto una casa ma solo una soluzione temporanea. Al suo interno ospita una struttura sanitaria e tutte le attività sono autogestite e organizzate in commissioni. Gli aiuti arrivano numerosi da 5 municipalità turche, oltre che singoli civili. La sanità dello Stato turco non accetta i profughi nei ‘Pronto Soccorso’ a meno che non si tratti di casi molto gravi; ultimamente neanche questi ultimi vengono accolti dagli ospedali pubblici. Nei corridoi polverosi e fangosi, tra le file simmetriche di tende grigie, gira voce che il governo centrale chiuderà anche l’unica struttura sanitaria presente.

Chi è tornato indietro, in Iraq vive principalmente nei campi profughi di Zakho, al confine con la Siria. Ci sono 20 mila yazidi sparpagliati in Turchia ma che non accettano lo status di immigrato e cercano già una soluzione: «bisogna creare una regione autonoma sotto il controllo internazionale», racconta un ragazzo. «Tutti noi siamo in attesa di ottenere lo ‘status di rifugiato’ ma non siamo soli: ci sono circa 100 mila persone che vorrebbero scappare dal Sinjar per richiederlo in Turchia o in Bulgaria», prosegue il giovane.

I loro vicini di casa di un tempo si sono convertiti all’ISIS; i buoni rapporti di vicinato – classici di culture suddivise in clan – si sono trasformati in paura di essere venduti, uccisi o decapitati. Nessuno vuole più tornare indietro se non armato e per combattere, ma solo accanto all’YPG.

«Gli americani ci hanno lanciato qualche briciola ma non bastava, né l’Iraq né i curdi iracheni ci hanno aiutati».

Il progetto di autonomia del Rojava non sembra essere ciò che cercano, la paura dei miliziani dell’Isis è molto più grande della volontà di stare in Mesopotamia. I tentativi di difesa armati si sono bloccati con la richiesta fatta a Ma’sud Barzani (Presidente della regione del Kurdistan iracheno, provincia autonoma dell’Iraq, e dal 1979 capo del Partito Democratico del Kurdistan) di ricevere ingenti quantità di armi ma senza ottenerle. Circa 4 mila abitanti del Sinjar hanno chiesto aiuto al Presidente ma nei tempi di attesa gli uomini sono stati uccisi e le donne vendute a Raqqa e Mosul, insieme ai bambini. «Adesso le nostre sorelle, madri, figlie e compagne potete trovarle nei mercati, tutte le donne in vendita sono yazide, una costa 200 euro».

Non è l’unico scempio che queste hanno dovuto subire. Durante l’invasione dell’Is si portava via il figlio alle donne Yazide che avevano appena partorito per poi venirgli dato in pasto mentre ancora erano all’ospedale. In generale i soprusi sono sempre esistiti sia sul lato turco che iracheno: «venivamo bloccati e sottoposti a controlli lungo le strade in quanto curdi, i primi a passare erano i musulmani. Ora la situazione è ulteriormente peggiorata».

Tra i racconti si scopre che circa 20 curdi yazidi sono ancora in galera in Iraq per aver ucciso un soldato dello Stato Islamico. Nel campo qualcuno è stato prigioniero dell’Isis prima dell’attacco a Sinjar, avvenuto dopo la presa di Mosul. Un uomo yazida è stato catturato insieme ad altri 23 suoi colleghi mentre era in turno, faceva il poliziotto del governo centrale iracheno. Tra i miliziani dell’Isis erano presenti diversi foreign fighters che provenivano da Cile, Turchia, Afghanistan e Cecenia.

«Stavamo tornando nelle montagne di Sinjar e ci hanno fatto prigionieri a Zakho (cittadina di confine tra Siria e Iraq) per un mese. Se ci avessero dato una pistola ci saremmo uccisi, molto meglio morire sparati piuttosto che avere la testa tagliata. A chi gli veniva chiesto se volesse una sigaretta gli amputavano diti indice e medio. Qualsiasi cosa dicevamo –dai saluti al ‘grazie’- doveva essere seguito da inshallah (se dio vuole) sennò ci minacciavano di tagliarci la gola. Ho dovuto pagare 50 mila dollari di risparmi, ho venduto qualsiasi cosa e chiesto soldi ai parenti per liberarmi e sopravvivere. Sono stati decapitati 20 dei miei colleghi».

«Nel mondo si trova spazio e si cerca di salvare tutti gli animali in via d’estinzione ma nessuno fa niente per noi. Siamo forse peggio degli animali?» – 15 marzo 2015

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