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Rassegna Stampa

Turchia – Siria, un muro al confine

Ankara teme nuove ondate di profughi, la rete del contrabbando e le milizie. Ma lascia sempre più soli i civili siriani

 Per primo lo ha scritto l’agenzia stampa turca Dogan, poi l’ha ripetuto il quotidiano turco Hurriyet, poi lo ha confermato l’israeliano Haaretz, che di muri se ne intende. Perché di questo si tratta: un nuovo muro, al confine tra Turchia e Siria.

I lavori di costruzione sono già iniziati: chilometri di cemento, due metri di altezza, filo spinato e tutto il resto. Il muro sorgerà nei pressi di Nusabyn, nella Turchia sud orientale. Simile alla barriera annunciata dal ministro turco del Commercio, Hatati Yazici, nei pressi del posto di frontiera di Cilvegozu.

Il motivo è intuibile: oltre ai 500mila profughi dalla Siria, quel confine è diventato troppo poroso per i militari di Ankara: armi, contrabbando, gruppi armati. Il timore è che alla fine renda ancora più dura la vita dei civili siriani, in fuga da guerra e violenza.

 

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Per mesi la politica del governo turco è stato di pieno sostegno ai ribelli siriani e di accoglienza ai profughi, ma negli ultimi tempi (il parlamento turco ha esteso di un anno il mandato delle forze armate per rispondere a eventuali sconfinamenti del regime) gli scontri tra le milizie curde e i guerriglieri più radicali si sono intensificati, attirando l’attenzione dell’intelligence di Ankara.
Né gli uni né gli altri sono ben visti in Turchia. Ankara vuole tenere sotto controllo la zona e i miliziani che vi operano. Solo che, come ogni muro, questa barriera non significa solo questo.
La Turchia, dall’inizio della crisi siriana, ha visto modificare radicalmente il suo ruolo nello scacchiere regionale e internazionale. Nel 2011, mentre il mondo arabo stava per conoscere un sommovimento enorme, Ankara si era guadagnata una centralità che le mancava da un secolo.

Un ‘neo-ottomanesimo’, una politica estera da protagonista e non più da comprimaria. Anche all’alba di quella primavera araba divenuta autunno anche per i suoi più entusiasti sostenitori, la Turchia c’è. Il premier Erdogan viaggia, sovvenziona, fa sentire la sua voce. In Iraq come altrove. Solo che, lentamente, questo attivismo si affievolisce.

Proprio la crisi siriana ha simboleggiato questo blocco. Il governo turco, fin dal primo giorno di insurrezione, ha appoggiato la fine del regime di Assad. Come hanno fatto le grandi potenze, salvo indietreggiare sempre più, dissolvendosi nel non decidere.
L’intervento armato dell’Occidente, definitivamente tramontato dopo l’attacco con i gas, che non è stato il casus belli che molti chiedevano, Ankara sa di essere più sola. Russia e Iran, con la Cina in disparte, reggono il gioco di Assad. Questo quadro ha generato una sorta di arrocco, nel quale la soluzione militare della crisi siriana pare sempre più lontana.

La Turchia, adesso, si trova sola a fronteggiare un’emergenza umanitaria immensa, con le file dei ribelli che si sono fatte sempre più complesse, con la solitudine dei gruppi più moderati rispetto a quelli più intransigenti. Ankara comincia a fare i suoi calcoli. Un muro è un simbolo, sempre. Non fa differenza questa volta, con la Turchia che si richiude in un ruolo più attento agli equilibri interni, a maggior ragione dopo le inattese e violente proteste di Gezi Parki.

Quello che spaventa, sempre più, è la condizione dei civili siriani. Mentre la diplomazia internazionale arranca lentamente verso un nuovo vertice a Ginevra, atteso per novembre, in Siria si continua a morire. E i profughi in fuga, oltre il muro dell’indifferenza dei media, delle classi dirigenti e delle opinioni pubbliche occidentali, ora troveranno un muro anche sulla strada per la Turchia, che per molti di loro ha significato l’ingresso in una vita da profughi, ma almeno indicava la strada per la salvezza.

di Christian Elia
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